DR. DANIELE GENNARO

  • Home
  • Curriculum professionale
  • Ambiti di intervento
    • Aree cliniche
    • Consulenza forense
    • Ambiti psicoterapeutici
  • Articoli
  • Contatti
Home / Archivio di: Senza categoria

All Interventions are Relational Acts

21 ottobre 2016 By admin

All Interventions are Relational Acts

While there are many specific interventions that can be helpful,  one of the more important principles is the recognition that the alliance and technique are interdependent. All interventions are relational acts.  The meaning and impact of the therapist’s intervention is always shaped by who both the client and therapist are, what they are both experiencing in any given moment, and how they are perceiving themselves and each other. Perhaps the most important overarching principles is for therapists is to continuously reflect on how clients are experiencing their interventions, as well as how their own feelings in the moment may be coloring their interventions.

A Dyadic Systems Perspective

The therapist is not a neutral or objective observer who can formulate the patient’s problems from an outside perspective. Psychotherapy takes place in the context of a an interpersonal field that the therapist is part of. Patients and therapists are always influencing one another at both conscious and implicit levels. There is an ongoing process of implicit mutual influence that takes place partly through nonverbal communication. Therapists are typically only partly aware of the roles they are playing in shaping this interpersonal field, and one of the critical tasks is for them to work towards developing a better understanding of how they are influencing this field over time.

Rupture and Repair as a Natural Developmental Process

Observational research of nonverbal communication  between infant-caregiver dyads finds that there is a process of mutual influence that involves ongoing cycles of affective coordination and misco-ordination (Tronick, 1987). Mothers and infants are affectively coordinated only 30% of the time. Misattunements are followed by interactive repairs approximately once every 3-5 seconds. In health mother-infant dyads, periods of misattunement are regularly followed by interactive repair. In insecure attachment relationships, periods of misattunement tend to be followed by more misattunement. Ongoing cycles of attunement-misattunement and interactive repairs, play an important role in helping infants to develop a relational schema in which the other is represented as emotionally available in the context of the inevitable ruptures that take place, and the self is represented as capable of negotiating relationship ruptures.

Filed Under: Senza categoria

Philip Bromberg : standing in the spaces

21 ottobre 2016 By admin

Trauma e dissociazione sono concetti che hanno avuto un destino psicoanalitico controverso, un destino caratterizzato da flussi e riflussi di interesse teorico e clinico. Il concetto di trauma ha infatti accompagnato la nascita e lo sviluppo del pensiero psicoanalitico.

A differenza del concetto di dissociazione, esso ha continuato a restare al centro delle riflessioni teoriche di analisti diversi. Freud (1914), anche dopo aver abbandonato la teoria della seduzione – concludendo che, se era vero che le isteriche riconducevano i loro sintomi a traumi inventati, “la novità consiste appunto nel fatto che […] creano tali scene nella loro fantasia” (p. 391) – mantenne due distinti modelli del trauma: come esito di uno stato affettivo insostenibile, e come esito dell’affiorare di un’idea o fantasia inaccettabile (Krystal, 1988). Successivamente Freud (1926), nel tentativo di conciliare queste due visioni, descrisse il trauma come uno stato in cui l’Io si trova indifeso davanti al montare di pressioni pulsionali, siano esse di natura esterna o interna.

E’ quindi grazie agli autori delle relazioni oggettuali (Winnicott, Khan, etc.) che si assiste ad un recupero dell’importanza del concetto di “trauma ambientale” e dell’idea che non sia tanto il trauma o gli affetti scatenati da esso ad avere potenzialità disturbanti, ma l’impossibilità che questi vengano gestiti e regolati nella relazione con l’oggetto.

Come scrivono Stolorow e Atwood (1992) “dolore e patologia sono due cose diverse” (p. 63). Balint (1969) sottolineava come avesse importanza non l’evento in sé, quanto l’assenza di risposte di contenimento e sollievo alle reazioni dolorose al trauma. E’ in tale assenza che si configura la fonte reale degli stati traumatici e della psicopatologia. Questo concetto veniva ribadito anche per quelle sottili “interferenze” (Winnicott, 1949), sovrastimolazioni (Greenacre, 1958), ferite narcisistiche (Kohut, 1971), vale a dire l’insieme di quei traumi “silenziosi” (Hoffer, 1952) e “cumulativi” (Khan, 1963) che possono verificarsi lungo il percorso dello sviluppo.

Diverso è stato invece il destino del tema della dissociazione. Dopo la rottura con Breuer, Freud introduce il concetto dirimozione. Da allora, gli psicoanalisti hanno trascurato lo studio degli stati di coscienza e dei fenomeni dissociativi per concentrarsi sui temi del conflitto e della rimozione.

La dissociazione ha tuttavia continuato ad attrarre l’attenzione degli analisti, fino a essere recuperata grazie al lavoro di Sullivan e di autori britannici (Fairbairn, 1952; Winnicott, 1971) e a raggiungere oggi, tra gli attuali modelli psicoanalitici un aspetto di primo piano.

La metafora della mente come entità monadica è stata così sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici che si sovrappongono, dove l’esperienza viene appiattita grazie ad un illusorio senso di continuità (Bromberg, 2006).

Sul piano evolutivo questa nuova metafora organizzatrice si traduce con l’idea che la precoce relazione madre-bambino rappresenti il “luogo” in cui vengono costruiti i “ponti” tra i diversi stati del Sé: la madre che aiuta il bambino a tollerare e negoziare la transizione degli stati e degli affetti costituisce (e forma) nella mente un’esperienza di collegamento in grado unire la molteplicità delle esperienze contraddittorie e mutevoli di Sé (e di Sé con gli altri) (Pizer, 1998). Come spiega Bromberg (1998):

Il processo evolutivo che facilita la transizione tra stati di consapevolezza deriva dalla capacità di una persona in salute di appianare la consapevolezza dei cambiamenti, una conquista enormemente facilitata dalla presenza di un caregiver che, attraverso un processo di regolazione reciproca, aiuta il bambino a conseguire delle transizioni di stato non traumatiche per mezzo di un’adeguata responsività interattiva alla sua soggettività (p. 178).

Durante lo sviluppo, in cui le precoci esperienze formano le fondamenta dei vari stati del Sé e i collegamenti tra loro, la dissociazione consente lo sviluppo di una continuità, coerenza e integrità del senso del Sé. Se però la discrepanza tra le esperienze è troppo ampia per essere tollerata, e i “paradossi” non trovano una soluzione, il suo scopo diventa allora quello di evitarne la dissoluzione traumatica (Bromberg, 1993). Interviene allora la dissociazione a trasformare la normale molteplicità in una molteplicità dissociata. La molteplicità dissociata del Sé è l’esito del crollo dei ponti che legano i diversi stati del Sé allo scopo di preservare la necessaria illusione di unitarietà (Bromberg, 1998).

Quando questa illusione di unità è minacciata in maniera traumatica da un inevitabile, precipitoso sconvolgimento, essa diviene un ostacolo poiché [l’individuo] rischia di essere sommerso da informazioni che non può elaborare simbolicamente e trattare come uno stato di conflitto. Quando l’illusione di unità è troppo pericolosa per essere mantenuta, quello che chiamiamo compulsività e pensiero ossessivo può spesso servire per sostenere il processo dissociativo riempiendo questi “spazi”, negando persino che siano mai esistiti (Bromberg, 1993, pp. 111-112).

La dissociazione interviene allora a preservare la coerenza personale, il senso di continuità e di sanità mentale “scollegando ipnoticamente gli stati di consapevolezza incompatibili, consentendogli l’accesso solo come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano cognitivo”. Il problema in questo caso è che “così facendo la cura diventa per gli individui traumatizzati anche il loro problema principale” (Bromberg, 1994, p. 196). E così, quello che in precedenza era la normale capacità dissociativa della mente, una configurazione fluida di stati del Sé multipli che rendono la persona in grado di “sentirsi uno in molti”, viene irrigidita all’interno di una struttura mentale dissociata (Bromberg, 1998, p. 16). Un “sacrificio del Sé […] al servizio della sua conservazione” (Chefetz, Bromberg, 2004, p. 437).

L’effetto del trauma è il danneggiamento delle funzioni integrative della mente. Quello che resta è una “amnesia retroattiva” una “memoria somatica” priva di rappresentazione simbolica. Ai soggetti traumatizzati, secondo Stern (1997), rimarrebbero parti di esperienze non formulate, non espresse, perchè non hanno un contesto narrativo e un’esperienza del Sé nella quale esistere. I vasti domini di sensazioni, percezioni e pensieri associati al trauma, in attesa di essere formulati e dotati di significato, vengono mantenuti non formulati dalla dissociazione: l’esperienza non formulata riguarderebbe quindi ciò che non è stato portato alla coscienza, non ciò che è stato eliminato dalla consapevolezza, ed è per questo inaccessibile alla riflessione e non esprimibile con il linguaggio (1).

La sensazione di paura determinata dall’evento traumatico continua ad essere sentita come reale, ma viene percepita come un’aspettativa di quello che potrebbe accadere o che sta accadendo, piuttosto che di quello che è accaduto. La sensazione, per il soggetto traumatizzato, è quella di dover restare sempre “all’erta” per un pericolo che – è sicuro – si sta per presentare, piuttosto che per il ricordo di un pericolo.

E’ da questa prospettiva che Bromberg si è recentemente interessato ai sogni e al loro significato, tanto da intitolare il suo penultimo lavoro Destare il sognatore (Bromberg, 2006).

Bromberg (2006) nota che talvolta un paziente può iniziare la seduta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi; vorrei almeno aver fatto un sogno”. Un’affermazione che, classicamente, viene letta come una forma di resistenza, come se significasse: “Se avessi un sogno potrei evitarmi di pensare al perché non ho nulla da dire oggi”. Per Bromberg (2006) invece questa affermazione può essere letta come: “Ho voglia di raccontarle un sogno, ma non ho alcun sogno” (p. 33); come cioè la voce di uno stato del Sé dissociato che sta cercando di trovare una voce e che sta dicendo “Non ho niente di cui parlare oggi, ma forse qualcun altro dentro di me sì”.

Per questo motivo, sostiene, se il “sogno” può essere concepito come “il caso particolare più noto del più generale fenomeno della dissociazione – la normale capacità autoipnotica della mente umana – l’esperienza onirica potrebbe allora essere considerata la più comune tra le attività dissociative della mente – e la sua funzione notturna uno sforzo adattivo per gestire livelli minimi di esperienze non-me affettivamente disturbanti senza compromettere l’illusione di veglia della coscienza” (Bromberg, 2006, p. 41).

In altre parole, l’uso del sogno in analisi, ad un certo livello, viene concepito come un’esperienza transizionale che rende possibile il potenziale collegamento di stati del Sé dissociati, consentendo alle voci degli altri stati del Sé di essere ascoltate e avere accesso alla struttura dinamica che il paziente definisce “me”. “Il processo attraverso cui ha luogo tutto questo non è”, scrive Bromberg (2006, p. 41) “adeguatamente descritto dall’espressione ‘interpretazione dei sogni’”. Piuttosto, l’autore tenta di descriverlo come un graduale sviluppo di un dialogo tra lo stato del Sé di veglia del paziente-come-paziente e lo stato del Sé onirico del paziente-come-sognatore. Con questa metafora Bromberg si riferisce alla necessità, per l’analista, di indirizzarsi direttamente ai processi dissociativi che determinano il funzionamento della struttura dissociativa del paziente.

L’esplorazione del sogno del paziente, quindi, non può affidarsi esclusivamente all’interpretazione. Nella prospettiva di Bromberg (1998) l’obiettivo della cura è quello di aiutare il paziente a prendere parte e collegare i diversi aspetti di sé, favorendo così una maggior coerenza dell’esperienza di “chi egli sia”, pertanto il sogno può diventare un importante alleato: “Se accettiamo che il sognatore è dentro il suo sogno (dentro una realtà psichica a sé), non solo il nostro modo di trattare i sogni in psicoanalisi cambierà, ma tutto ciò che ha luogo tra noi e il nostro paziente sarà sperimentato diversamente, compreso il modo in cui percepiamo e usiamo transfert e controtransfert” (2006, p. 41).

Molto spesso, dice Bromberg (2006), gli analisti hanno avuto la tendenza a colludere con l’esperienza vigile che i pazienti fanno del sogno, considerandolo come qualcosa di alieno all’esperienza, qualcosa che può essere conosciuto soltanto in modo indiretto, attraverso le associazioni sul sogno ricordato.

Al contrario, secondo l’autore, se si accetta che la realtà “onirica” rappresenta un diverso stato di coscienza e che, il fatto che abbia luogo durante il sonno, non rende la sua distanza dalla realtà vigile più incolmabile di quella tra due qualsiasi stati del Sé dissociati, allora è possibile pensare che si possa sognare ed essere vigili al tempo stesso.

L’esplorazione del sogno diventa così il ricorso ad uno spazio potenziale (Winnicott, 1971) in cui ciascun membro della relazione è in grado di fare esperienza della realtà vigile dell’altro come se fosse il proprio “sogno”: “In altre parole, la soggettività del paziente, per quanto conoscibile direttamente solo dal suo autore, è, di fatto, accessibile esperenzialmente all’analista come fosse un suo sogno e viceversa, aprendo uno spazio in cui le realtà vigili di paziente e analista fanno posto ai potenziali sognatori” (Bromberg, 2006, p. 43).

Sul piano tecnico, questo significa che “quando un paziente porta un sogno in seduta, il compito dell’analista è quello di permettergli di portare in seduta il sognatore” (p. 41). Si tratta, in altre parole, di invitare il paziente a rivivere il sogno come se lo stesse sperimentando in quel momento – un invito a rientrare nel proprio spazio onirico conservando, al contempo, la sua realtà vigile.

Nella prospettiva di Bromberg (2006), il sogno, più che un racconto da comprendere, è una realtà di cui fare esperienza con la maggiore profondità possibile “come se stesse avendo luogo in questo momento” (p. 45). Il principale compito psicoanalitico; “interpretare” il sogno, si trasforma così nel tentativo di far nascere e sviluppare un dialogo tra il sé della veglia del paziente-come- paziente e il sé onirico del paziente-come-sognatore. Un metodo che sta a indicare “una moltitudine di processi attraverso cui stati del Sé fluttuanti nel paziente e nell’analista appaiono sulla scena del dialogo intersoggettivo generando, da entrambe le parti, maggiore coerenza nello stato del Sé” (ibidem, p. 24).

(1) “Solitamente pensiamo alla consapevolezza come allo stato naturale dell’esperienza. Immaginiamo che, se siamo inconsapevoli di un qualcosa, sia necessario fare qualcosa per poterne diventare consapevoli. […] Ma che succede se capovolgiamo i termini e guardiamo alla comparsa dell’esperienza nella consapevolezza non come lo stato di cose che si verifica ‘naturalmente’, ‘da solo’, o senza intervento, ma come un evento naturale? …Che succede se la tendenza naturale delle cose è di restare al di fuori della consapevolezza? Che succede se azione e sforzo sono richiesti non per mantenere l’esperienza fuori dalla consapevolezza, ma per portarla al suo interno?” (Stern, 1997, p. 85).
Bibliografia

Balint M. (1969), Il difetto fondamentale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1983.

Bromberg P. M. (1993), Shadow and Substance: A Relational Perspective on Clinical Process. Psychoanalytic Psychology, 10, 147-168.

Bromberg, P. M. (1993), Discussion of “Obsessions and/or Obsessionality: Perspectives on Psychoanalytic Treatment”. by Walter E. Spear. Contemporary Psychoanalysis, 29, 90-100.

Bromberg, P. M. (1994), “Speak! That I May See You”: Some Reflections on Dissociation, Reality, and Psychoanalytic Listening. Psychoanalytic Dialogues, 4, 517-547.

Bromberg, P. M. (1998), Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007.

Bromberg, P. M. (2006), Destare il sognatore. Percorsi clinici. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.

Chefetz R. A., Bromberg, P. M. (2004), Talking with “Me” and “Not Me”. Contemporary Psychoanalysis, 40(3), 409-64.

Fairbairn, W. R. D. (1952), Studi psicoanalitici sulla personalità. Bollati Boringhieri, Torino 1970.

Freud, S. (1912-1914), Totem e tabù e altri scritti. Tr. it. in Opere vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1985.

Freud, S. (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, Tr. it. in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978.

Greenacre, P. (1958), Early Physical Determinants in the Development of the Sense of Identity. Journal of American Psychoanalytic Association, vol. 6.

Hoffer, W. (1952), The Mutual Influences in the Development of Ego and Id. Psychoanalytic Study of the Child, VII, 31-41.

Khan, M. (1963), “Il concetto di trauma cumulativo”. In Khan, M. (1974), Lo spazio privato del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1979.

Kohut, H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.

Krystal, H. (1988), Integration and Self-healing: Affect-Trauma-Alexithymia. The Analytic Press, Hillsdale, NJ.

Pizer, S. A. (1998), Building Bridges: the negotiation of paradox in psychoanalysis. Routledge, 1998.

Stern, D. (1997), L’esperienza non formulata. Tr. it. Edizioni il Cerro, Firenze 2007.

Stolorow, R. D., Atwood, G. E. (1992), I contesti dell’essere: le basi intersoggettive della vita psichica. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Winnicott, D. W. (1949), The Ordinary Devoted Mother and Her Baby. Nine Broadcast Talks., London: Private Distribution Only

Winnicott, D. W. (1949), Hate in the counter-transference. Int. J. Psychoanal., 30:69–74.

Winnicott, D. W. (1971), Gioco e realtà. Armando Editore 1974.

Filed Under: Senza categoria

La struttura del MBT – trattamento basato sulla mentalizzazione .Di Daniele Gennaro

21 ottobre 2016 By admin

  1. La struttura del MBT – trattamento basato sulla mentalizzazione

Lo scopo del MBT è sviluppare un processo terapeutico in cui la mente del paziente diventi il focus del trattamento; per il paziente l’obiettivo è scoprire qualcosa di più sul modo in cui sente e pensa se stesso e gli altri, come questo determini le sue risposte e quali errori nella comprensione di sé e degli altri diventano azioni tese a mantenere una stabilità e a dare significato a sentimenti incomprensibili. Vi sono 3 fasi, ognuna con un proprio obiettivo e con specifici processi.

  1. Fase iniziale e valutazione della mentalizzazione

Dovrebbe adempiere ai seguenti scopi: – offrire una mappa delle relazioni interpersonali significative e delle connessioni tra queste e i principali problemi comportamentali: infatti la valutazione della mentalizzazione e la qualità delle relazioni interpersonali sono connesse strettamente; – valutare in questi scenari la capacità ottimale di mentalizzazione: la valutazione della mentalizzazione dovrebbe avvenire mentre si discute con il paziente delle sue relazioni interpersonali; nonostante le relazioni del passato siano importanti per l’MBT, l’enfasi è posta sulle relazioni significative del presente. Ogni relazione deve essere definita in base a 4 parametri: 1) la forma della relazione; 2) i processi interpersonali implicati; 3) il cambiamento che il paziente cerca all’interno della relazione; 4) i comportamenti provocati da tali cambiamenti. Per definire una strategia terapeutica, il valutatore deve giungere ad una conclusione circa la configurazione globale del sistema relazionale che descrive il funzionamento del paziente, distinguiamo così due gruppi di pattern relazionali: 1) individui le cui relazioni sono concepite nei termini di un alto grado di contingenza tra gli stati mentali dell’altro e quelli del Sé; questi individui sono definiti “centralizzati”: la rappresentazione  che queste persone hanno dello stato mentale dell’altro è connessa alla rappresentazione del Sé. Queste persone mostrano rigidità e instabilità: le relazioni oscillano tra, intimità e invischiamento da un lato, e distacco e svalutazione dall’altro; le emozioni sono mutevoli, le persone diventano in un attimo “amici”, “nemici”, “amanti, “traditori!, ecc; la qualità della relazione viene spesso liquidata sommariamente, specie quando il soggetto sente minacciato il proprio nucleo del Sé. Il pattern centralizzato è associato ad un attaccamento insicuro, con reazioni quali: vischiosità, terrore dell’abbandono, costante controllo della vicinanza del caregiver, ambivalenza e angoscia nelle relazioni intime; non è in grado di mantenere una capacità di mentalizzazione nel contesto delle relazioni di attaccamento: è impossibile una separazione delle menti e questo genera confusione su ciò che è dentro e ciò che è fuori e su cosa appartenga al proprio Sé e cosa all’altro; 2) individui le cui relazioni hanno una scarsa contingenza tra gli stati mentali propri e quelli altrui; questi individui sono definiti “distribuiti” e mostrano una stabilità labile ed una scarsa flessibilità; la loro organizzazione è improntata al distanziamento: prendono le distanze dagli altri e hanno uno stile di attaccamento distaccato e nessuno può avvicinarsi oltre un certo limite; vi è dunque una chiara separazione tra la propria mente e quella dell’altro; sono destinati all’isolamento e alla solitudine. Entrambe queste configurazioni contrastano con una rappresentazione relazionale normale in cui le relazioni sono considerate nei termini di un alto grado di contingenza tra gli stati mentali; le rappresentazioni normali mostrano selettività, stabilità nel tempo e flessibilità: queste persone costruiscono una pluralità di relazioni che possono cambiare nel corso del tempo e passare da un’estrema vicinanza ad una notevole distanza, o viceversa, in base alle circostanze o alle scelte, ma senza che ciò influenzi l’importanza della relazione e mantenendo un senso di continuità. Il nucleo del Sé non è mai minacciato. Un pattern normale è correlato con un attaccamento sicuro, si ha una buona capacità di mentalizzazione e una valida capacità di produrre narrazioni coerenti di episodi interpersonali anche piuttosto burrascosi; queste persone sanno di influenzare gli altri e di essere a loro volta condizionati dagli altri.

  1. Valutare il pattern relazionale

E’ importante valutare il pattern relazionale per 2 ragioni: innanzitutto perché definisce il contesto relazionale all’interno del quale emergono i problemi di mentalizzazione che dovrebbero trovare risposta, e poi perché permette al terapeuta di cogliere la sua posizione nella relazione con il paziente. Con il paziente centralizzato, il terapeuta, deve mantenere un equilibrio tra vicinanza e distacco: il rischio per il terapeuta è di diventare troppo coinvolto o troppo distaccato e oscillare tra questi due estremi; con il paziente distribuito, il terapeuta, deve cercare di portare il paziente più vicino a stabilire un contatto con le proprie emozioni: il rischio per il terapeuta è di essere troppo distante, consentendo al paziente di mantenere uno stato di distacco attraverso l’intellettualizzazione o il funzionamento del “far finta”. – descrivere i tentativi più rilevanti di compromissione della mentalizzazione: mentre una buona capacità di mentalizzazione assume un’unica forma, quella non mentalizzante può essere segnalata da un’ampia gamma di manifestazioni; essa è rivelata dal contenuto della narrazione, lo stile può essere eccessivamente scarno o troppo dettagliato, vi è la tendenza a generalizzazioni o a definizioni sommarie; – verificare se le difficoltà di mentalizzazione siano generalizzate o parziali: – parliamo di mentalizzazione carente generalizzata, quando è presente rigidità della comunicazione e della relazione, costante distorsione della consapevolezza emotiva, un uso manipolatorio di specifiche comunicazioni e relazioni; – parliamo, invece, di forme parziali di mentalizzazione carente, quando ciò si verifica in funzione di particolari pensieri, sentimenti e situazioni, specifici stati umorali possono interagire con un nucleo traumatico, stati di arousal, depressione e intensa attivazione del sistema di attaccamento, l’interazione con particolari persone possono compromettere la capacità di mentalizzare; – valutare se prevalgono forme di pseudomentalizzazione o di comprensione concreta: si può ipotizzare una forma di pseudomentalizzazione quando si fanno delle affermazioni sui propri stati mentali o su quelli altrui, centrate sul proprio tornaconto o facendo riferimento solo alle proprie disposizioni personali.

  1. Le 3 forme di pseudomentalizzazione

1) intrusiva: quando non viene rispettata la distinzione o l’opacità di una mente rispetto ad un’altra: la persona crede di sapere come o cosa gli altri provino o pensino; 2) iperattiva: caratterizzata da un eccessivo investimento in un pensiero relativo a come la gente pensa o a cosa prova; 3) distruttivamente impropria: caratterizzata da una negazione della realtà oggettiva che attenta all’esperienza soggettiva dell’altro; è una negazione dei reali sentimenti dell’altro, sostituiti da una versione contraffatta e distorta. La comprensione concreta è la categoria più comune di scarsa mentalizzazione e descrive un fallimento generale delle capacità di apprezzare gli stati interni; c’è una generale mancanza di attenzione verso i sentimenti, i pensieri e i desideri degli altri, vi è un rigido ancoraggio alla prima spiegazione razionale trovata, assenza di riflessione. – ogni tendenza a forme di abuso della mentalizzazione deve essere considerata a parte: molte persone con un grave disturbo di personalità danno l’impressione di avere una capacità di mentalizzazione quasi eccessiva, utilizza la mentalizzazione per controllare il comportamento dell’altro, spesso in modo lesivo: in questi soggetti la capacità di leggere la mente dell’altra persona va spesso a discapito della capacità di rappresentare il proprio stato mentale;

  1. Fase iniziale e restituzione della diagnosi

Il modo migliore è essere diretti ed esplicativi, tenendo a mente che lo scopo del MBT è stimolare il paziente a considerare ogni aspetto di sé e di riflettere su ciò che il medico pensa di lui, dimostrandogli la nostra capacità di prendere in considerazione le sue difficoltà; quando comunichiamo al paziente la diagnosi, è bene verificare che il paziente stia comprendendo ciò che gli stiamo dicendo.

  1. Fase iniziale e spiegazione di una probabile eziologia

Il terapeuta spiega le possibili cause del BPD, i problemi psicologici che ne conseguono, le difficoltà di mantenere una capacità di mentalizzazione e i modi in cui vengono utilizzate le terapie per rafforzare la mentalizzazione.

  1. Fase iniziale e definizione del progetto e del focus terapeutico

I pazienti cominciano il trattamento con una seduta individuale, alla quale segue la prima sessione di gruppo che permette al paziente di riflettere su quanto detto dal terapeuta individualmente e di discutere la cosa con il suo gruppo di pari, confrontandosi e risolvendo eventuali fraintendimenti o interrogativi.

  1. Due varianti del MBT

Ci sono due varianti del MBT: – la prima è un programma in day hospital in cui i pazienti accedono con una frequenza iniziale di 5 volte a settimana con una durata massima di 18-24 mesi; per poter essere ammesso a tale trattamento, il paziente deve avere un inadeguato supporto sociale, un rischio elevato per sé e per gli altri, condizioni abitative precarie, abuso di sostanze, capacità di mentalizzazione frammentarie. – la seconda versione è un trattamento ambulatoriale intensivo della durata di 18 mesi che consiste in una seduta settimanale individuale di 50 minuti ed una successiva di gruppo di 90 minuti; tali pazienti sono meno disorganizzate, hanno migliori capacità di mentalizzazione, discrete capacità di controllo attentivo e affettivo, mostrano una certa capacità di adattamento alla vita di ogni giorno, hanno un posto dove stare, godono di un valido supporto sociale. Le sedute individuali e di gruppo non sono scindibili e assenze frequenti in uno dei due setting comportano una discussione in merito alla possibilità di terminare il trattamento o continuarlo; quando non si ci presenta ad uno dei due momenti, la cosa viene discussa nel successivo incontro, sia individuale che di gruppo: è più frequente che i pazienti manchino agli incontri di gruppo, molti infatti sono restii a partecipare a una terapia di gruppo: apparetemente il paziente sembra aver accettato questo tipo di trattamento, ma solo per poter accedere al trattamento individuale. La partecipazione al gruppo è fondamentale poiché è nel gruppo che i pazienti possono concretamente realizzare una regolazione degli stati emotivi ed esercitare la loro capacità di preservare la mentalizzazione, poiché devono tener a mente la loro condizione e sforzarsi di comprendere la mente di molte altre persone nello stesso istante. Ci sono regole specifiche che riguardano la violenza, l’uso di droghe o alcool e le relazioni sessuali: qualsiasi cosa che crei un allentamento della capacità di mentalizzare è incompatibile con il programma terapeutico; è opportuno essere schietti e diretti nella comunicazione delle regole, si ci può servire di un opuscolo o di un foglio informativo e non bisogna limitarsi alla loro enunciazione o a darne indicazioni senza illustrare le ragioni che le sottendono. I contratti devono essere personalizzati e particolari, anche se non siamo grandi sostenitori dei contratti, poiché un paziente che in un certo momento conviene con quanto stabilito nel contratto, può non avere questa stessa disposizione mentale in un contesto diverso: una valida capacità di mentalizzazione implica che il paziente comprenda il proprio stato mentale in ogni circostanza, che sia in grado di proiettare se stesso nel futuro anticipandone lo stato emotivo, riflettere su uno stato mentale pregresso e considerare il suo stato mentale in contesti differenti.

  1. Fase iniziale e comunicazione della formulazione e definizione di un piano di gestione delle crisi

La formulazione è fatta dal terapeuta individuale al termine delle prime sedute e dopo un confronto con l’equipe terapeutica; essa viene data al paziente in forma scritta per un’ulteriore discussione, essa deve comprendere gli obiettivi iniziali, anche quelli più a lungo termine, e si dovrebbe fare un breve riepilogo di ciò che insieme si è compreso. Tutti i paziento sono sottoposti a visita di controllo ogni 3 mesi con l’intera equipe terapeutica, per discutere dei progressi, delle difficoltà e di altri aspetti del trattamento. Ogni terapia farmacologica deve essere sottoposta a un riesame! Quasi tutti i pazienti borderline andranno incontro a delle crisi nel corso del trattamento, ma non esiste un piano unico per la loro gestione: molte si verificano la sera, durante la notte o nei fine settimana, quando il paziente si sente solo e abbandonato dal terapeuta.

  1. Fase intermedia del MBT

Ha lo scopo di stimolare un aumento progressivo delle capacità di mentalizzazione. In questa fase è essenziale mantenere alto il morale dell’equipe, ovvero il senso generale di fiducia e all’atteggiamento prevalente  nell’equipe: atteggiamenti positivi tendono ad evocare stati d’animo analoghi nei pazienti e a favorire un coinvolgimento nel processo terapeutico; atteggiamenti negativi tendono ad alimentare un clima disperante. L’interazione tra i vari terapeutici è fondamentale: nel programma di day hospital sono previste brevi riunioni d’equipe ogni giorno; nel programma ambulatoriale intensivo, i terapeuta devono incontrarsi nell’intervallo tra le sessioni, individuali e di gruppo, cosicché il terapeuta sappia cosa sia successo nel setting precedente.

  1. Fase finale del MBT

Si fa un lavoro per prepararsi alla conclusione del trattamento: il terapeuta si deve concentrare sui sentimenti di perdita connessi alla fine del trattamento e su come mantenere i progressi che si sono compiuti. E’ noto che i pazienti borderline migliorano spontaneamente nel corso del tempo, ma il miglioramento riguarda le condotte impulsive e l’instabilità affettiva e non il funzionamento interpersonale che resta compromesso. La fase conclusiva inizia al termine del primo anno, quando il paziente ha ancora 6 mesi di trattamento davanti a sé; la fine del trattamento e le relative reazioni di separazione sono importanti per il consolidamento dei progressi fatti durante la terapia, infatti una negoziazione inadeguata può produrre la ricomparsa di precedenti modalità di gestione dei sentimenti e un concomitante declino delle capacità di mentalizzazione, dunque un deterioramento del funzionamento sociale e interpersonale. Il compito di elaborare un programma di follow-up e di definire eventualmente un ulteriore trattamento spetta al paziente e al terapeuta individuale; la maggior parte dei pazienti fa richiesta di ulteriori incontri di follow-up, ciò potrebbe essere considerato come un successo del trattamento o un modo per evitare la fine del trattamento e un indicatore, dunque, del non essere riusciti a lavorare in modo adeguato sulle ansie connesse alla conclusione del percorso: I clinici esperti fissano gli appuntamenti individuali di 30 minuti ogni 4/6 settimane; il contratto di follow-up è flessibile e il paziente può chiedere un ulteriore appuntamento se dovessero presentarsi difficoltà nella gestione di un problema emotivo; ma in generale l’intervallo di tempo tra un appuntamento e l’altro è dilatato fino a 6 mesi, in modo da promuovere un maggior senso di responsabilità del paziente.

  1. La posizione del terapeuta

In psicoterapia, mentalizzare definisce un processo congiunto in cui il focus è costituito dagli stati mentali del paziente; il terapeuta costruisce e ricostruisce continuamente un’immagine del paziente nella sua mente: il paziente deve trovare se stesso nella mente del terapeuta, così come il terapeuta deve trovare se stesso nella mente del paziente, se vi è un processo comune di mentalizzazione, che porta entrambi a fare esperienza di cambiamento psichico indotto da un’altra mente. Il terapeuta dovrebbe assumere la POSIZIONE MENTALIZZANTE (O DEL NON SAPERE), ovvero si deve sforzare di rappresentare il concetto dell’opacità degli stati mentali, è possibile che il terapeuta non abbia una maggiore conoscenza rispetto al paziente di cosa ci sia nella mente del paziente, dunque dovrebbe dimostrare una certa disponibilità ad apprendere qualcosa di più sul paziente, essendo attivo nelle domande e scoraggiando l’eccessivo ricorso alle libere associazioni; inoltre dovrebbe essere FATTIVO, ovvero laddove il paziente non riesca ad immaginare di essere nella mente del terapeuta, quest’ultimo dovrebbe darne prova esplicita attraverso azioni che rispettano sempre e comunque i confini terapeutici (una lettera, una telefonata, una visita domiciliare). Ciò avviene allo scopo di promuovere l’alleanza terapeutica e mostrate al paziente che lui è nella mente del terapeuta; è opportuno che ogni azione intrapresa venga considerata anche dall’equipe, prima di metterla in atto! Essendo umani, sarà inevitabile fare errori nella terapia, (errori antimentalizzanti): un terapeuta ACCORTO dovrà accettarli, riconoscerli e dimostrare di essere consapevole degli effetti che hanno prodotto nel paziente: non bisogna negarli o nasconderli. Gli errori sono spesso indizi di un enactment controtransferale: essi sono inevitabili e anzi dovrebbero essere previsti come concomitanti di un’alleanza terapeutica; una riflessione su di essi dovrebbe essere centrata nella relazione paziente-terapeuta, entrambi devono assumersi la responsabilità di considerare i fattori che hanno portato ad essi, dovranno dunque, per venirne a capo, fermarsi, tornare indietro e esplorarli. Un aspetto del processo che necessita di particolare attenzione è una risposta negativa o un’improvvisa rottura dell’alleanza terapeutica, che può lasciare il terapeuta sconcertato e incerto su come reagire; tali rotture rivelano il concorso di entrambe le parti e non di una sola e il terapeuta deve essere capace di riparare a ciò utilizzando esplicitamente le proprie riflessioni e recuperando velocemente le sue capacità di mentalizzazione.

  1. Come dovrebbero essere gli interventi terapeutici

Gli interventi terapeutici dovrebbero essere: – semplici e brevi: più gli interventi sono lunghi e complessi e più si riduce la capacità di mentalizzazione che è strettamente associata al grado di attivazione del sistema di attaccamento ( più si stimola lo stato emotivo del paziente aumentando l’attivazione del sistema di attaccamento e più la sua capacità di mentalizzazione diventa fragile); – focalizzati sull’affettività piuttosto che sul comportamento e incentrarsi sullo stato mentale soggettivo del paziente piuttosto che su un aspetto specifico dell’attività mentale: il terapeuta deve essere in grado di mettere da parte il comportamento, impegnandosi a mantenere la concentrazione sulla mente del paziente; – dovrebbero far riferimento a eventi e situazioni interpersonali attuali: il terapeuta deve concentrarsi selettivamente sulle esperienze recenti e lavorare con tutto ciò che è attuale nella mente del paziente, in modo da attribuire un senso di attualità pure ad esperienze di molto tempo prima; – dovrebbero enfatizzare i contenuti preconsci o consci piuttosto che quelli inconsci; – concentrarsi sul processo piuttosto che sul contenuto. Nell’MBT l’obiettivo del terapeuta è imparare qualcosa in più su come una persona sente e pensa; per fare ciò, il terapeuta deve esplorare costantemente lo stato mentale del paziente e al contempo interpretarlo personalmente, allo scopo di stimolare il paziente a comprendere i propri stati mentale e quelli altrui. Nei pazienti borderline, la motivazione al cambiamento e l’investimento sul trattamento sono piuttosto instabili: il terapeuta deve stare attento ad un eventuale calo della motivazione e in tal caso modificare l’interazione col paziente. I principi che terranno viva la motivazione sono: rassicurazione, sostegno ed empatia, ascolto riflessivo, non giudicante, astensione dalle critiche e dall’indovinare come il paziente possa sentirsi, porre le domande in maniera positiva, elaborazione degli affetti attraverso un’esplorazione  empatica gli stati emotivi del paziente: stati affettivi intensi interferiscono negativamente con la mentalizzazione, ne conseguono agitazione mentale che sopraffà la sua capacità riflessiva, panico, agiti e moti difensivi. Quando il terapeuta usa la tecnica del “ferma e stai” il suo obiettivo è quello di ristabilire la mentalizzazione quando essa fallisce e subisce una drastica alterazione: il terapeuta dà l’alt e insiste che il paziente si concentri e rifletti sul momento di rottura.

  1. Le tecniche di mentalizzazione di base

Le tecniche di mentalizzazione di base sono raggruppate in: – tecniche del “fermati, ascolta e guarda”: suggeriscono la necessità di fermarsi, ascoltare e guardare; per far ciò il terapeuta sospende la sessione e analizza nel dettaglio ciò che sta accadendo, concentrandosi su chi prova cosa verso chi, e sulla percezione che ciascun membro del gruppo ha di ciò che sta accadendo; – tecniche del “fermati, torna indietro e analizza”: la differenza è che il terapeuta deve interrompere la seduta, e pretendere di tornare indietro e con la tecnica del “ferma e stai” analizzare andando avanti un pezzo alla volta. Le menti del paziente e del terapeuta hanno bisogno di fermarsi e/o tornare indietro per comprendere meglio il processo appena emerso, allo scopo di ristabilire la mentalizzazione quando questa è andata perduta o favorirne il mantenimento. Qualsiasi interpretazione dovrebbe essere utilizzata con cautela: per mentalizzazione interpretativa si intende un’elaborazione dell’interpretazione insieme al paziente per cercare di fargli assumere una visione comune sul suo comportamento in quella situazione; i passi da compiere in tale processo sono: 1) chiarificazione ed elaborazione sia dell’emozione e sia dell’esperienza; 2) individuare il fallimento della mentalizzazione ed incoraggiare una mentalizzazione alternativa sullo stesso tema; 3) presentare una prospettiva alternativa. E’ allo stesso modo importante MENTALIZZARE IL TRANSFERT, ovvero focalizzarsi sulla relazione terapeuta-paziente nella speranza che una discussione su questa relazione contribuisca al benessere del paziente; l’obiettivo è quello di focalizzare l’attenzione del paziente sulla mente del terapeuta, assistendolo nel confronto tra la percezione che lui ha di sé e la percezione che gli altri hanno di lui, si pone l’accento sul transfert per mostrare ai pazienti come gli stessi comportamenti possono essere vissuti e pensati in maniera diversa da menti diverse.

  1. MBT e il transfert

Il modo migliore per spiegare come l’MBT utilizza il transfert è possibile riassumerlo in 6 passi: 1) convalida del sentimento di transfert: cioè assicurarsi che il paziente avverta i suoi sentimenti come reali e legittimi; 2) esplorazione del transfert: usando le tecniche di elaborazione e di esplorazione per analizzare la complessità dei sentimenti di transfert che vengono riferiti e analizzare gli eventi che hanno suscitato tali sentimenti; 3) accettazione dell’enactment: il terapeuta trascinato nel transfert dovrebbe riconoscere e ammettere il coinvolgimento, assumendosi la responsabilità; 4) collaborazione al fine di giungere ad un’interpretazione; 5) il terapeuta propone una prospettiva alternativa alla sua reazione di transfert; 6) monitorare la reazione del paziente e cercare di interpretarla: il processo non si deve chiudere con l’interpretazione del transfert da parte del terapeuta, perché ciò determinerà la chiusura della mentalizzazione, piuttosto che facilitare una sua successiva attivazione: il percorso è più importante del punto di arrivo.

  1. La psicoterapia di gruppo

La psicoterapia di gruppo è molto efficace per mettere a fuoco i propri stati mentali e quelli altrui, poiché ogni paziente esplora la comprensione soggettiva delle motivazioni altrui e al contempo riflette sulle proprie: questa caratteristica del programma rappresenta uno degli aspetti più difficili per il trattamento dei pazienti borderline, che si trovano a dover controllare e rispondere a 6/8 menti, anziché concentrarsi soltanto su due come accade nella terapia individuale. Vi sono due principali tipi di gruppi: – gruppi a mentalizzazione esplicita, che si avvalgono di esercizi mentalizzanti espliciti. Per la maggior parte del tempo noi mentalizziamo in maniera esplicita, riflettendo e parlando continuamente dei nostri pensieri e stati emotivi e anche di quelli altrui. Il gruppo a mentalizzazione esplicita ha una cadenza settimanale e dura un’ora e mezzo, è articolato in un programma di 10/14 settimane ed è previsto solo nel programma di day hospital e non del programma ambulatoriale intensivo; i principi guida sono: esercizi articolati in sequenze che vanno da una maggiore distanza emotiva ad una crescente personalizzazione; esercizi che assicurino un focus su: sé e l’altro, percezioni ed esperienze degli altri su di noi, percezioni nostre sugli altri. – gruppi a mentalizzazione implicita, che applicano un processo mentalizzante implicito. Per tutte le nostre interazioni, noi realizziamo una mentalizzazione implicita, ma quando cerchiamo di coglierne l’essenza, immediatamente scivola in una forma esplicita dissolvendo la sua natura implicita. Essa è automatica, procedurale, intrinseca e al di sotto del livello della coscienza.

  1. Obiettivi della psicoterapia di gruppo

Gli obiettivi principali sono: promozione di una capacità di mentalizzare noi stessi, gli altri e le relazioni; favorire una mentalizzazione implicita richiede del tempo, quasi un anno, affinchè il processo possa essere stimolato e consolidato come istanza del funzionamento psicologico individuale. Focalizzarsi su una mentalizzazione in gruppo richiede che il terapeuta prenda il controllo del gruppo pur continuando a farne parte, dimostrando di essere un partecipante al gruppo e non un osservatore del gruppo, poi sarà necessario monitorare i livelli di ansia sia del gruppo nel suo insieme che dei singoli partecipanti, controllando che siano ottimali (né troppo alti e né troppo bassi): il controllo del gruppo si concretizza con l’uso della tecnica del “ferma e stai” attraverso la quale il terapeuta insiste affinchè il gruppo si concentri su ciò che sta accadendo in quel momento, infine tutti gli interventi che mirano ad accrescere la mentalizzazione del gruppo, nell’immediatezza del momento, sono la chiave per un’evoluzione costruttiva del gruppo. Un indicatore comune, e a volte imprevisto, di un fallimento della mentalizzazione riconducibile ad intensi stati d’ansia è dato dal paziente che abbandona la seduta, per fare ordine nella propria mente stando da soli e lontani da altre menti ed in grado di ritornare dopo aver recuperatone il controllo dopo qualche minuto; ma il terapeuta può trovarsi nella necessità di abbandonare il gruppo momentanemente per aiutare il paziente a ritornare o può suggerire ad un membro del gruppo di accorrere in aiuto del paziente. Le due forme di mentalizzazione sono strettamente intrecciate, la loro complessità sembra più una doppia elica che un continuum, in grado di generare una comprensione psicologica di noi stessi dalle molteplici sfaccettature, di codificare le nostre relazioni, di rappresentarle e di restituirle durante le nostre interazioni. Lo scopo di ciascun intervento è di favorire un processo di mentalizzazione e di concepire prospettive diverse, quando il paziente si misura con una pluralità eterogenea di comprensioni di sé, ed è costretto a riconsiderare l’immagine che ha di se stesso, l’effetto che questa ha sugli altri e quello che gli altri hanno su di lui.

Filed Under: Senza categoria

NUOVE STRATEGIE NEL TRATTAMENTO DEL PAZIENTE BORDERLINE Antonello Correale e Marta Vigorelli

21 ottobre 2016 By admin

NUOVE STRATEGIE NEL TRATTAMENTO DEL PAZIENTE BORDERLINE

Antonello Correale e Marta Vigorelli

Bergamo
Incontro scientifico del 21 aprile 2007

Homeindice delle
relazioni

articoli di
A. Correale

contributi
esterni

bibliografia

POSTA

Antonello Correale – Il discorso è molto ampio, per cui la parola “panoramica” mi pare che si adatti bene, anche perché se si dovesse entrare nel merito di tanti problemi dovremmo pensare a più di un seminario. Vi propongo alcuni punti di cui parlare oggi: non vorrei entrare nel merito delle disquisizioni, che pure sono importanti, sul tipo di diagnosi, che sono molto dettagliate e distinguono “organizzazione” da “disturbo borderline”. Alcuni studiosi mettono addirittura in dubbio che esista un disturbo borderline e ne fanno una variante del disturbo isterico in senso ampio. Altri lo considerano una variante più lieve della psicosi; insomma il dibattito è tuttora importante, fervido e anche molto animato. Senza rendere ossessive queste distinzioni, penso di potervi proporre di definire borderline un certo modo, una certa organizzazione globale che permette di individuare al suo interno molte varianti, molte sottospecie che presentano una certa comunanza di fondo che permette di chiamare borderline tutti questi quadri, senza temere di etichettare in modo troppo rigido.In secondo luogo, io vi parlerò del borderline senza ogni volta specificare se quello che dico proviene dalla psicoanalisi, dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby o dall’Infant Research attuale. Vi dico subito che, in gran parte, gli studi dell’Infant Research attualmente sono forse la fonte più ricca di dati ed è assolutamente impossibile non tenerne conto, perché il modello dell’attaccamento disorganizzato, che poi si traduce in meccanismi di difesa rigidi nell’adulto, mi sembra che spieghi molto bene il quadro complessivo. Però anche qui ci sono molti contributi della psicoanalisi da ricordare, specialmente per quanto riguarda il modo di funzionare attuale del borderline; vorrei quindi operare una contaminazione tra modelli, cercando cioè didescrivere come a mio parere funziona, come vive, come si sente nella vita, nel mondo, nei rapporti, una persona di questo tipo, tenendo conto che sullo sfondo ci sono le ricerche sull’attaccamento disorganizzato più o meno ibridate e contaminate con i dati psicoanalitici.

Vorrei anche dirvi, prima di entrare nel merito, perché mi sembra così importante parlare di disturbo borderline oggi, oppure perché a me piace in modo particolare occuparmi di questo tema, nonostante sia peraltro molto faticoso, stancante e frustrante occuparsi di questi pazienti che suscitano sentimenti di ostilità, di stanchezza, di rabbia, di odio certe volte. Sentimenti che vanno riconosciuti senza tanti problemi etici, certe volte addirittura comunicati, ma su questo tornerò dopo. Due cose: intanto il disturbo borderline si pone come una spia di un profondo malessere sociale, non soltanto individuale. Credo che si possa dire che il disturbo borderline è in aumento anche per moda, perché si chiamano borderline più facilmente certe persone, però in linea di massima tutti i servizi anche all’estero, mi riferisco soprattutto agli studi inglesi, dicono che i Servizi di diagnosi e cura sono occupati nei pronto soccorso ormai, molto di più da persone con disturbi esplosivi della personalità che da psicotici. Quindi stiamo assistendo a un fenomeno importante: sono in aumento i disturbi della personalità a carattere esplosivo, caratterizzati da impulsività, irrequietezza, comportamenti agiti più che pensati, rapporti instabili. Io credo che sia un compito degli operatori della salute mentale non solo sforzarsi di curare queste persone, ma anche capire quali siano gli elementi nella società che facilitano l’accentuazione di questo disturbo.

Questo è un tema molto affascinante: ‘cosa’ sono i borderline? L’espressione di un negativo della nostra società, di qualche cosa di rimosso, di espulso che si manifesta in questa forma distruttiva? Perché c’è questo aumento? Perché assume questa forma? C’è un difetto di fondo nel modo di educare i bambini delle nostre coppie da venti, trent’anni a questa parte? Oppure c’è nella società un modo di stare insieme, di assistere ai mass media, di leggere i giornali, un modo con cui si comportano le persone che fanno opinione, che tende a far sì che l’aspetto isterico, iperstimolante, urlato, eccessivo, estremizzato prevalga sull’aspetto più intimo, dialogante, personale, accogliente? Si può dire che c’è un’isterizzazione complessiva dei mass media che puntano all’aspetto percettivo, momentaneo, emozionale, tipo pugno nello stomaco, rispetto alla ricostruzione di un legame, di una storia, di una vicenda; assistiamo cioè ad un mondo sociale che tende ad un’iperstimolazione, ad un’iperpresentificazione della funzione del tempo, in cui futuro e passato contano molto meno del presente, conta tutto nel presente, conta soprattutto un’accentuazione emozionale alta del presente, un forte coinvolgimento stimolante, eccitante ai quali però non corrisponde un ascolto, un dialogo, un incontro intimo e affettivo. Questo è un po’ quello che succede anche nelle famiglie e ce lo dirà fra poco Marta Vigorelli: nella mia esperienza questi ragazzi, queste ragazze che diventeranno borderline hanno un contesto familiare iperstimolante, spesso sul piano sessuale e talvolta su quello della violenza fisica o verbale, ma non c’è accompagnata a questa iperstimolazione uno spazio di accoglimento più potenziale, più embrionale, più affettivo, come dire “Stiamo insieme e vediamo cosa succede nell’ascoltarci, nell’andare in giro a fare una passeggiata sul prato”. Questo non c’è: se si sta insieme bisogna iperstimolarsi, ipereccitarsi reciprocamente in qualche modo.

Allora, quest’idea di un’iperstimolazione a cui non corrisponde un dialogo fra due interiorità potrebbe essere un tema da studiare, perché mi sembra che colga una delle linee di fondo del malessere sociale attuale. Mi sembra che il disturbo borderline, attraverso il vuoto che molto opportunamente richiamava il dottor Foresti, è come se ci costringesse a prendere in esame il momento in cui l’attività mentale passa dal percettivo al rappresentativo, cioè il momento in cui dalla stimolazione si passa a una capacità di rappresentare inserendo questa stimolazione in una trama sensata. Se noi siamo in presenza di un ambiente esageratamente traumatico, intendendo per traumi come dirò tra poco delle relazioni che hanno una caratteristica di eccitamento, di attacco, di enigmaticità, di imprevedibilità per cui l’altro è sempre troppo presente, eccessivo, estremo e occupa, divora e ingombra il soggetto, non lasciandolo mai in compagnia di un vuoto buono. Non c’è insomma un vuoto necessario, da cui nascono i pensieri, c’ è soltanto il vuoto da assenza di stimolazione.

Questo a me sembra molto importante: in che misura il trauma interferisce nella formazione dei pensieri, dei legami affettivi, di relazioni significative, di quella trama di intimità affettuosa? A me piace usare una parola che è tenerezza che mi sembra essere l’asse portante per capire i borderline: il borderline è a digiuno di tenerezza. Ha fatto indigestione di violenza, di sessualità, magari anche stimoli utili, importanti, ma questo aspetto un po’ soffuso, raccolto, che c’è nella tenerezza, in una stimolazione sensuale e non sessuale, questo non lo conosce. Credo possa costituire una delle linee portanti anche della terapia.

Il terzo motivo, più banale ma non per questo meno importante, è che questi pazienti occupano i servizi, li impegnano spasmodicamente, li stancano, li affaticano, molto spesso non abbiamo modelli di funzionamento terapeutico adeguato, moto spesso creano meccanismi di rigetto, di rifiuto, di espulsione. C’è addirittura qualche autore americano che dice di abolire la parola borderline perché secondo lui sarebbe ancora più stigmatizzante della parola schizofrenico: in America borderline significa “rompiscatole”. Quindi se si dice borderline nei servizi si sente: “oddio, no!”. Questo per dirvi quanto è forte questa connotazione negativa che ormai ha assunto questa parola per i servizi e come l’unico modo per non farsi sommergere da un fastidio, da un senso di persecutorietà è, se mi permettete il termine, di “libidizzare” questi pazienti, prenderli come oggetto di studio, come oggetto di amore e di interesse, capovolgendo questa visione: non mi faccio perseguitare da te ma anzi, voglio vedere un po’ cosa sei, perché sei così, cosa posso fare per cambiare questa modalità ripetitiva esasperante. Anche a livello economico è importante: i borderline costano un sacco di soldi ai servizi pubblici in termini di ricoveri ripetuti, di operatori impegnati, di tribunali che si impegnano a fare processi che si potrebbero evitare se la terapia funzionasse in modo migliore e così via.

Ultimo aspetto, poi entro nel merito, il borderline costringe ad un lavoro d’equipe: è quasi impossibile seguire un borderline da soli. Come minimo occorrono due persone: la coterapia tanto amata dai cognitivisti, da Liotti e dagli altri. Spesso nella mia esperienza quando il borderline è grave non basta neanche la coterapia, ci vogliono infermieri, assistenti sociali, operatori che lavorano con la famiglia, che lavorano sul paziente, psicoterapeuti, psichiatri, spesso comunità, centri diurni talvolta, insomma gruppi, gruppi di operatori. Allora si ripropone il problema che era molto in auge fino a vent’anni fa, e che adesso è molto decaduto nei servizi del “ci crediamo ancora al lavoro d’equipe o non ci crediamo più?”, oppure l’equipe è soltanto una somma di professioni che interagiscono in qualche modo? Questo grande mito nato negli anni ’70, ’80, idealizzato ma non per questo meno importante, con i borderline ci viene riproposto assieme, come diceva il dottor Foresti, al limite della psicofarmacologia. Con i neurolettici è cambiata la terapia con gli psicotici, non quella con i borderline. È una sfida che ci costringe a riconoscere la scarsa efficacia dei nostri strumenti e magari proprio per questo siamo costretti a inventarcene di più efficaci. Questa era l’introduzione che volevo fare per spiegare perché questo argomento mi sembra così importante e per trasmettere anche a voi le motivazioni che mi spingono a occuparmi di questi temi.

Vorrei proporre come punto di partenza il concetto di disforia. Disforia è un termine non molto usato in psichiatria che indica un’alterazione dell’umore che potrebbe corrispondere al “cattivo umore” nel linguaggio corrente. Ma che vuol dire essere di cattivo umore? Facciamo uno sforzo: non vuol dire sono arrabbiato, non coincide neanche con il sono triste. Se uno dice sono di cattivo umore è diverso dal dire “oggi mi sento malinconico”. Non è neanche sentirsi ansioso: mi attende qualcosa che mi preoccupa, devo fare un incontro e non so come andrà, devo affrontare un dialogo difficile con una persona importante per me, ma difficile. È un miscuglio, è un senso di inquietudine, di irrequietezza, allarme, leggera confusione, non identificazione precisa di un motivo che ci fa stare di cattivo umore e di un’attesa che succeda qualche cosa che modifichi questo stato sgradevole. Potremmo definire la disforia un allarme irrequieto non accompagnato da un’adeguata comprensione del perché ci sentiamo così. Io credo che questo stato, che si potrebbe in campo esistenziale definire un’irrequietezza sgradevole, un’inquietudine a tinta negativa, un’attesa senza sapere cosa si attende, un desiderio che qualcuno compaia e ci dica o ci faccia qualcosa per cui questo stato passi.

Credo che questa sia una condizione molto basica del nostro paziente borderline, una condizione molto presente, molto diffusa e tipica di tutte le volte in cui in qualche modo va incontro a un’esperienza sgradevole e addirittura traumatica. Se poi noi andiamo ad analizzare meglio questo stato disforico, questa irrequietezza, vediamo che compaiono dei sentimenti che potremmo definire così: non mi posso veramente fidare di nessuno, cioè non mi aspetto che qualcuno possa veramente alleviare questo mio stato, però ho un bisogno spaventoso che qualcuno lo faccia. La cosa drammatica del borderline è che non è una solitudine eroica, non è l’eroe romantico che da solo sfida il mondo. Neanche per sogno. È un eroe romantico nel senso che si sente solo, ma ha un bisogno terribile che qualcuno allevi la sua solitudine. Allora questa disforia spesso e volentieri diventa un attaccarsi alla figura che in quel momento è più importante, il fidanzato, la fidanzata, il parente, l’amico importante e intraprendere, intrattenere con quella persona una modalità molto conflittuale, moto contraddittoria, di richiesta e di arrabbiatura, di desiderio di contatto e di espulsione di quel contatto, di dire: “fammi qualcosa, ma tutto quello che mi farai non mi basterà”. Sto forse estremizzando, ma credo che se mai avete seguito un paziente borderline quando vive questi momenti, potete notare quanto siano legati a questa condizione di una fiducia-sfiducia, di un desiderio pessimistico ma non per questo meno forte, anzi, quanto più pessimistico, tanto più è forte il desiderio che qualcuno venga ad alleviare questa cosa. Ora, se questo stato è riconoscibile e presenta anche il vuoto di cui si parlava, tale vuoto si potrebbe definire come il rapporto che io cerco in questi momenti disforici e che manca sempre di una qualità, quella che proponevo di chiamare intimità,tenerezza o calore. Mi rendo conto che sono termini un po’ descrittivi, ed è molto difficile dare una descrizione della tenerezza. Si potrebbe dire che la tenerezza è una condizione in cui nell’incontro con l’altro io metto in comune non soltanto la condivisione, l’empatia, la sintonizzazione e tutti quegli aspetti su cui giustamente gli psicologi della ricerca infantile insistono e alcuni sono veramente di grande interesse; io direi che la tenerezza è anche un modo di stare nel rapporto in cui si sente che in un certo senso anche i corpi si toccano, come se ci fosse un gesto, una parola, uno sguardo che dà la sensazione che io ti accolgo anche come corpo, non soltanto come persona, come mente. In questo accogliere come corpo non c’è una sessualizzazione, ma una sensorializzazione che non diventa eccitamento. A me sembra molto importante questo aspetto perché mi pare che in qualche modo noi abbiamo bisogno come di un lubrificante nei rapporti umani, come il motore della macchina che ha bisogno dell’olio altrimenti i pistoni si surriscaldano. C’è bisogno di un elemento che fluidifichi i rapporti, dia una sensazione di scioltezza, di morbidezza, che non ha nulla a che vedere col fatto che poi si litiga, si ama, si odia, ci si saluta, non ci si saluta. Non è questo il punto. Tutto si può e si deve fare, la vita è varia e fatta di mille scenari, non di un solo, però questo elemento di una certa tenerezza di fondo mi sembra possa costituire un substrato che è come dire che la nostra natura fisica non va mai dimenticata, che non va mai dimenticato che siamo dei corpi che provano caldo, freddo, fame, sete, vuoto, pieno, desiderio, mancanza, sonno… Ecco, questo a me sembra un punto molto importante, perché partendo da quest’ipotesi del trauma, ritengo che il paziente borderline sia stato deprivato di tutto questo.

Non si vuol dare la solita colpa ai genitori che spesso a loro volta sono stati deprivati e quindi si rientra in tutto il tema caro alla professoressa Vigorelli del passaggio transgenerazionale che secondo me è di grandissima importanza nel disturbo borderline perché molto spesso abbiamo a che fare con esperienze vicine alla tragedia greca, col sangue dei genitori che ricade sui figli e poi sui figli dei figli. Purtroppo molto spesso questa modalità rigida di rapporto è qualche cosa che la vittima di questa modalità ripropone alla sua vittima successiva, quindi è un modo un po’ riduttivo chiamarlo calore, perché calore è un termine troppo ambiguo. Anche tenerezza è un termine un po’ troppo poetico, però nella tenerezza c’è anche l’idea di una morbidezza nel rapporto che non esclude poi la fermezza, la forza, l’aspetto virile: non c’entra nulla, non è una passività, è una sfumatura.

Qual’è la conseguenza del fatto che in questi rapporti potenzialmente traumatici questa dimensione non è raffigurata? Io arriverei a dire che addirittura la mancanza di questa dimensione induce un problema sul senso stesso della vita e dei rapporti e io ho notato invariabilmente che la domanda sul senso della vita, sul dove siamo capitati, perché viviamo, noi normalmente non ce la poniamo, anche perché è senza risposta in linea di massima. Quando ci poniamo queste domande, quando siamo ad esse più sensibili? Quando c’è un vuoto affettivo. In fondo è la solitudine ciò che spinge a chiedersi “ma che razza di situazione è questa della vita?”. Non sto affermando che la filosofia nasce dal dolore, però in una certa misura forse sì.

Il borderline non si pone le domande sul senso della vita, però spesso se lo si interroga su questo, lui o lei tende a dire che non vede proprio questo senso. Non lo vede però quando è disforico ed è prontissimo a dire invece, quando il rapporto in qualche modo si ricostituisce, che a lui del senso della vita non gliene importa nulla. Questa è la stabile instabilità: possono subentrare delle situazioni traumatiche che inducono un meccanismo disforico il quale apre a un sentimento di vuoto e di mancanza di rapporti il quale, insieme alla mancanza di tenerezza induce la sensazione che la vita non abbia un senso, che siamo in presenza di manichini, di burattini, di persone che si fanno gli affari loro, che non ci si possa fidare di nessuno, che gli esseri umani sono tutti cattivi, che non vale la pena di aspettarsi nulla da loro e che allora la cosa migliore da fare è trarre dai rapporti il massimo di piacere possibile, oppure, come direbbe Kernberg, idealizzare qualche cosa. Come dire è tutto uno schifo, però questa sera ho conosciuto una persona al bar e questa persona non fa schifo: io questa sera la eleggo a rappresentare il senso della vita per me, quindi ci ubriachiamo insieme, parliamo tutta la notte, poi domani mattina mi accorgo che questa persona era pessima e allora questo mi conferma quello che già sapevo. Sto un po’ forzando questo meccanismo per esprimerlo con la massima chiarezza possibile, però in linea di massima ho trovato abbastanza spesso questa sequenza: rottura di un rapporto significativo, disforia – scontentezza – irrequietezza – allarme, senso di vuoto insopportabile, bisogno di riempire questo senso di vuoto con un rapporto nuovo e idealizzato a casaccio, oppure che non viene idealizzato ma che ha soltanto il fine di dare piacere, il sesso, la droga, l’alcol oppure con atti sconsiderati come correre in macchina di notte, non rispettare i semafori, attaccare briga col primo che capita, insomma con delle cose che restituiscano un senso di vitalità e di piacere al posto di questa desertificazione.

C’è la famosa frase del Macbeth, che a me piace molto, che alla fine, dopo tutti i disastri combinati per ammazzare il rivale con la moglie, dice: “la vita è una favola raccontata da un idiota piena di rumore e di frastuono che non significa nulla”. Se noi capiamo che il borderline quando sta male si sente così, possiamo avvicinarci di più a lui, non colpevolizzarlo troppo ma neanche indulgere a questa idea che la vita è una favola raccontata da un idiota. È importante che noi cogliamo questa dimensione se mi permettete “filosofica” del disturbo borderline, perché quando loro sentono che il loro terapeuta dice: “sì, ha ragione, certe volte la vita veramente è un po’ un enigma” si trovano meglio, infatti quello che loro non sopportano è il terapeuta che ha tutte le risposte, che sa sempre cosa bisogna fare, che ha una vita affettiva e professionale che funziona bene, la sua casa, la sua villa al mare… Questi pazienti non sopportano tutto questo. Vogliono sentire che il terapeuta è una persona come loro, che ogni tanto ha avvertito il vuoto, il dolore, la paura e che poi in qualche modo ne è uscita. Mi sembra molto importante questa sintonia esistenziale, non soltanto affettiva: una sintonia sulla solitudine del vivere.

Arriviamo ora al trauma: se questa descrizione vi sembra più o meno aderente alla clinica, mi rendo conto che fino ad adesso ho fatto soltanto fenomenologia, possiamo passare alle spiegazioni attraverso il concetto di trauma. Tale argomento meriterebbe una trattazione dettagliatissima. C’è un libro molto bello, tradotto recentemente per l’editore Magi: Traumatic stress, dello psichiatra e psicoanalista Van der Kolk, che consiglio perché inquadra il problema sia dal punto di vista della psicoanalisi, che delle neuroscienze e della sociologia. È di grande interesse il fatto che il trauma avvicini psicoanalisi e neuroscienze in modo abbastanza convergente, perché questa idea che il trauma libera, come direbbe Freud, un’energia libera a scapito di un’energia legata (in Al di là del principio di piacere) corrisponde a quanto potremmo dire noi, ossia al fatto che il trauma attiva un’emozionalità indiscriminata al posto di un’emozionalità legata a una rappresentazione. Questo meccanismo determina un eccesso di emozionalità che, proprio in quanto eccessiva e priva del carattere modulato proprio della tenerezza, induce una paralisi delle funzioni rappresentative, quindi viene alterata anche la memoria nel senso che si ha una iperattivazione della memoria implicita, cioè della memoria non legata a delle immagini di rappresentazione, ma legata soltanto alla ri-proposizione di un’azione o di sensazioni. Si ha inoltre un’atrofia della memoria episodica (non si ricorda una serie di episodi) ed un’ipertrofia della memoria semantica, con ripetizione all’infinito di dichiarazioni generiche: “tutti gli uomini sono cattivi”, “la mia esperienza mi dice che non mi posso fidare di nessuno… Non mi ricordo che quella volta è andata così, che quella sera invece è successo che…”. Questa è la memoria episodica. Tutto qui rientra nel grande calderone della categorizzazione aspecifica che conferma l’idea a priori. Dobbiamo però metterci d’accordo: i traumi sono degli eventi singoli o sono delle situazioni ripetute?

È chiaro che il trauma può consistere in un evento singolo: se un giorno mentre vado in macchina ho un incidente in cui mi muoiono padre, madre e fratello ed io sono l’unico sopravvissuto questa è una cosa spaventosa che cambierà la mia vita radicalmente. Questa è la definizione di trauma come evento eccezionale che modifica radicalmente la vita di una persona: la violenza sessuale da parte di un padre rientra tra quegli eventi che modificano in modo radicale l’assetto di vita di un essere umano. Però questa definizione di trauma legata esclusivamente all’evento è insufficiente, pur essendo utile per tutto quello che riguarda il disturbo post traumatico da stress e per tutte le ricerche che si fanno adesso sull’EMDR, su questi movimenti oculari che sembrano riportare alla memoria la singola esperienza traumatica. Tra l’altro credo che questa tecnica sia molto utile per i singoli traumi, cioè quando si deve ricordare il trauma di quella volta, in cui successe quella cosa.

Si è però visto da molte ricerche, che nel disturbo borderline questi traumi specifici sono presenti in un certo numero di casi ma non in tutti, anzi, in buona parte dei disturbi borderline questi traumi specifici non sono presenti. Quest’idea che aveva molto solleticato diversi ricercatori che erano convinti di aver trovato l’eziopatogenesi del disturbo borderline si è dimostrata non valida, perlomeno non in questo senso. In un altro senso però sì, cioè nel senso che il concetto di trauma va sostituito con quello di attaccamento traumatico, o di relazione traumatica. Il bambino o la bambina futura borderline, è una bambina che è immersa in una situazione relazionale continuativa che contiene al suo interno delle componenti traumatiche. La relazione traumatica è una relazione continuativa, per esempio con una figura di famiglia, che ha al suo interno, fissa, una dimensione traumatica, cioè qualche cosa che fa star male, che mette in allarme. Si potrebbe dire che tutte le volte che io sto con mio padre, anche quando lui è di buon umore, io mi sento vulnerabile e impaurito. Su questo aspetto vi consiglio una lettura bellissima che è la “Lettera al padre” di Kafka: pur non essendo stato lui un borderline ci può essere utile perché lui dice: “Caro papà, tu non ti rendi conto che tutte le volte che io ti guardavo avevo paura”. Noi non ci rendiamo conto certe volte di come la quotidianità contenga al suo interno dei sentimenti stabili come la paura. Magari il papà di Kafka non l’ha mai picchiato, non si è mai sognato di dargli uno schiaffo, per cui in una visione un po’ superficiale ci si potrebbe chiedere che sciocchezze stia dicendo quel bambino, perché mai parli di paura in riferimento ad un padre forse soltanto un po’ severo. La paura invece c’era: questo mi sembra molto importante, noi dobbiamo valutare quanto l’infanzia può essere immersa in emozioni sgradevoli di cui non dobbiamo colpevolizzare i genitori i quali a loro volta sono immersi in queste situazioni. Vi sono situazioni che trascendono la volontà dell’uno e degli altri. Ci può aiutare in questo senso il concetto di attaccamento traumatico, però il trauma non va definito sulla base dell’evento, bensì dei suoi effetti: ci sono delle esperienze relazionali che inducono alcuni effetti sulla mente.

Quali sono gli effetti indotti dal trauma? Sono sostanzialmente due: sul primo c’è una letteratura ormai sterminata ed è un effetto di modifica dello stato di coscienza. Nel caso dei borderline viene considerato sotto il termine di dissociazione. Anche qui si tratta di una dinamica sterminata e bisogna distinguere tra vari gradi di dissociazione. Noi siamo abituati a pensare che sia uno stato quasi un po’ onirico ma non è necessariamente così: uno stato blandamente dissociato può essere quello in cui l’emozione della persona funziona secondo delle modalità automatiche. La persona non perde il contatto con la realtà però si sente trascinata a vivere un’emozione che in quel momento la travolge completamente. Mi è capitato di sentire delle ragazze che mi dicevano: “Ieri ho fatto una scenata di gelosia spaventosa al mio fidanzato e adesso mi rendo conto benissimo che non c’era nessun motivo di farlo, però abbiamo litigato selvaggiamente. Poi mi sono guardata indietro e mi sono chiesta che cosa avevo fatto. Ero io in quel momento che facevo questo?”. Una persona che si fa trascinare a fare delle scenate violentissime e che poi dopo riflette e si chiede se fosse stata lei a provocarla ha forse perso il contatto con la realtà? Sicuramente no! Era del tutto delirante mentre faceva quelle cose? Sicuramente no! Provava però un’emozione che aveva acquistato un’autonomia rispetto alla sua volontà, che andava avanti per conto suo. Si può dunque parlare di un’alterazione dello stato di coscienza nel senso che una parte della coscienza ha preso il sopravvento su tutte le altre, e c’è quella che Kohut chiamava una scissione verticale: cioè uno dei miei personaggi, uno dei miei modelli operativi, direbbe Bowlby, ha preso completamente il sopravvento sugli altri ed io in quel momento sono diventato tutto arrabbiato, oppure tutto seduttivo, o ancora tutto disperato, o tutto entusiasta, avendo perso la capacità di integrare due modelli operativi interni diversi. Questo è un fenomeno molto importante perché questa modalità dissociativa nei casi gravi diventa un vero e proprio disturbo dissociativo dell’identità, le personalità multiple – che io personalmente non ho mai visto – che alcuni dicono di aver visto.

Ci sono sicuramente delle condizioni più estreme di dissociazione in cui l’effetto del trauma induce quasi uno stato oniroide: la persona fa delle cose non rendendosi ben conto di quello che fa. Pur non sapendo io come sono andate davvero le cose, il famosissimo caso di Cogne [la madre uccide il figlio di pochi anni, ma dichiara sempre di non averlo fatto], induce una domanda su questo: è possibile che una persona non ricordi di aver fatto una cosa perché è entrata in uno stato dissociativo transitorio? Ho portato questo come un esempio di una questione che pone un problema molto importante, tanto importante che la Corte di Cassazione recentemente ha inserito disturbi gravi della personalità tra i disturbi che possono far scemare grandemente la capacità d’intendere e di volere. Quindi anche la giurisprudenza ha recepito l’idea che la dissociazione del borderline possa indurre una diminuzione della capacità di controllo e di volontarietà nei nostri atti. È molto importante che noi ci focalizziamo sul concetto di dissociazione perché essa è il primo effetto di una reazione traumatica ripetuta, che induce alla presenza della persona traumatizzante una parziale modifica dello stato di coscienza che può andare dall’automatismo emozionale, la scenata non voluta, la serata in cui scappo col primo che capita, ci faccio l’amore poi mi accorgo che è un delinquente che mi ha derubato, al disturbo dissociativo della coscienza grave tipo quello della memoria o dell’attenzione. L’altro meccanismo che induce un trauma, una relazione traumatica quindi la dissociazione con tutte le sue varianti è la coazione a ripetere. Qui entreremmo in un campo sterminato: vi confesso che, pur pensandoci da molti anni, non ho ancora compreso questo meccanismo.

Freud dice che la coazione a ripetere sarebbe un tornare sul luogo del delitto: se io sono stato ucciso o ho ucciso qualcuno tenderò a ritornarci con la mente, un po’ come i veterani del Vietnam. Vi sono studi che dimostrano come questi siano diventati persone insopportabili, litigiose con le mogli e siano violenti: in qualche modo il trauma ha introdotto un’alterazione del carattere in senso gravemente peggiorativo. Perché questo? Perché quando una persona si è trovata nella condizione di essere una potenziale vittima di un attacco tende o a ripercorrere la strada di fare la vittima, o segue quella di fare l’aggressore. Anche le ricerche sull’attaccamento ci dicono che il bambino sottoposto a un trauma tenderebbe o a mettersi nella condizione di aggressore o in quella di aiutare la persona che li traumatizza. Questo è interessante per noi che facciamo dei lavori di “helping profession”: perché sentiamo spesso questo forte bisogno di occuparci di persone che stanno male? C’è indubbiamente una motivazione scientifica ed una etica, ma può darsi che noi ci mettiamo anche qualche cosa di nostro. Forse le persone che si occupano di altre persone che stanno male, è probabile siano persone che hanno avuto a che fare con l’esperienza traumatica e che hanno indirizzato questa loro esperienza verso la dimensione dell’aiuto. Si potrebbe dire che si tratta di una ‘identificazione proiettiva’ se vogliamo usare una terminologia psicoanalitica classica, cioè la tendenza a mettere nell’altro la propria parte vittima e fare io la parte di chi soccorre. Questo è un meccanismo spaventevole perché ci fa capire quanto spesso il bambino sia iperresponsabile nei confronti dei genitori, e quanto spesso sensi di colpa e tematiche di accudimento nei confronti dei genitori possono occupare uno spazio grandissimo, e ancora come un comportamento borderline possa essere interpretato spesso come un tentativo di liberarsi da una specie di obbligo di accudire e aiutare i genitori, che vengono vissuti inconsciamente come profondamente sofferenti.

L’attaccamento traumatico, la coazione a ripetere e gli eventi dissociativi: vedete che compare una sequenza. Il futuro borderline tende a stabilire dei rapporti molto importanti in cui si sceglie una persona a cui affida per una lunga o breve parte della sua vita il compito di stabilizzare il senso di solitudine, di vuoto, di rabbia, di angoscia, di disforia e di mancanza di coerenza. Secondo la mia esperienza quando vogliamo curare un borderline è molto importante individuare qual è la persona che in quel momento svolge il ruolo di relazione fondamentale. Questo per me è preliminare: chi è la persona a cui tu affidi la funzione di stabilizzare, tua madre? Tuo padre? Il tuo o la tua fidanzata? Un tuo amico? Il capoufficio? Il tuo dottore? Se noi non capiamo questo, ci sfugge il 90 per cento delle crisi acute del borderline, perché esse nella mia esperienza sono quasi sempre legate a fratture di quella relazione fondamentale. La persona a cui ho affidato il compito di stabilizzarmi non mi ha telefonato, mi ha detto una cosa antipatica, sono due settimane che non fa l’amore con me, ha telefonato a un’altra persona, mi ha detto una cosa che non mi doveva dire, mi ha fatto una promessa che non ha mantenuto, ecc… Comunque c’è una frattura con la persona a cui ho affidato il compito di stabilizzarmi, ed essa determina una disforia ed un meccanismo dissociativo automatico che mette in moto una modalità violenta, impulsiva o disperata di comportamento. Se poi la relazione si ricostituisce in qualche modo, il borderline ritrova una certa stabilità e si chiede come sia potuto succedere tutto ciò. Gli scatta dunque il momento delle promesse, del “non lo farò mai più”, del “mi prendo cinque pastiglie al giorno pur di non farlo”. Dice: “mamma, scusa, non uscirò mai più da sola”. E al fidanzato: “come fai a sopportarmi? Non lo so, sei un uomo meraviglioso”. Quando poi, dopo due giorni, c’è di nuovo il passo falso nella relazione fondamentale, si ricomincia da capo. Questa è la stabile instabilità: è il fatto che si è inseriti in una relazione fondamentale la quale è continuamente soggetta al rischio di tradire, di spaventare, di deludere e la delusione mette in moto dissociazione, modalità ripetitive di comportamento, stati d’animo disforici e, nei casi peggiori, comportamenti disperanti, come violente aggressioni ad altri ed anche a se stessi. Certe volte questi stati dissociativi assumono il carattere di veri e propri meccanismi di anestetizzazione del corpo e si hanno allora delle automutilazioni su diverse parti del corpo, che sono modi per infliggersi un dolore fisico allo scopo di sciogliere la sensazione di diventare di legno. Anche qui sono all’opera aspetti dissociativi.

La terapia è conseguente a questa visione. Questa precisione nel cogliere la condizione dell’attaccamento traumatico, questa descrizione così dettagliata delle sequenze che io ho cercato di presentare, ci dà degli strumenti in più rispetto alla semplice psicoterapia kernberghiana che, nella mia esperienza, è difficile da portare a termine perché dopo un po’ questi pazienti si stancano e se ne vanno. Il suo metodo fondato sull’interpretazione di transfert può andare bene con pazienti che hanno col loro terapeuta un rapporto fortissimo. Questo non mi stupisce: chi ha conosciuto Kernberg sa che è una figura carismatica, però non tutti siamo carismatici. Parlando con lui si ha la sensazione che irradi una grande forza intellettuale ed emozionale, quindi io non trascurerei il fatto che lui leghi a sé anche le persone che cura, con questo messaggio molto forte: quello di attivare una speranza, una fiducia e un investimento. Nessuna terapia può andare in porto se non c’è una certa idealizzazione del terapeuta, tuttavia è molto importante che si disponga anche di certi strumenti che vanno al di là della semplice psicoterapia. Le crisi che ho descritto, il trauma derivato dalla rottura della relazione fondamentale, la disforia, i comportamenti eccitati, la dissociazione, la tendenza a ripetere certi comportamenti possono comportare il ricovero in ospedale e richiedere forti interventi a casa e sui familiari. Molto spesso sembra che il familiare faccia apposta a fare ciò che non andrebbe fatto, a provocare, non per cattiveria ma perché non si rende conto della situazione. Molto spesso si intrecciano delle relazioni in cui certe madri e certi padri, certi fratelli e sorelle, e certi fidanzati sembra che si orientino al far arrabbiare ripetendo e inducendo comportamenti come se fosse sempre la prima volta. Basterebbe ad esempio che il fidanzato restasse nella stessa stanza a parlare al telefonino: lui invece va nell’altra stanza e succede il pandemonio. Ogni volta è come se fosse la prima.

Per la terapia di un paziente borderline, se è grave, è necessaria un’attivazione congiunta che possa coprire dalle situazioni di emergenza, dalla famiglia alla visita domiciliare, all’opportunità di una struttura che risponda al suo star male anche il sabato e la domenica, si trattasse anche solo di una telefonata.

In secondo luogo, la persona che intrattiene con il paziente un rapporto deve essere pronta a rendersi disponibile a un resoconto della quotidianità quasi continuo. Se c’è una libera associazione, un momento di fluidità mentale ben venga, però più spesso non è così; più spesso il paziente viene e fa delle affermazioni generali. In questi casi conviene con dolcezza e tranquillità chiedere specificamente cosa è successo: “ma lei dov’era?” Perché e quando si è arrabbiato? E cosa ha fatto?”, non in modo inquisitivo ma in un modo che dia alla persona la capacità di rendersi conto che esistono delle invarianti, cioè che di fatto queste rabbie che li portano alla rottura, alla disperazione, ai comportamenti automatici, alla dissociazione, sono messe in moto sempre dalle stesse configurazioni emozionali. C’è un oggetto importante che va e viene più o meno a ragione. Sembra banale detto così, ma di fatto non si tratta di qualcosa di scontato. A me non sembra importante in questi casi che l’operatore dica “lei è così con me”, perché anche questo colpevolizza il paziente: l’importante è che si parli di come lui è con gli altri. Bisogna far entrare massicciamente i terzi. Il terzo non è una parte di te all’inizio: il terzo è proprio un terzo. Poi pian piano, quando il paziente sta meglio, lo si può definire una parte di te. Discutiamone, ma mi sembra molto importante questo punto, perché bisogna avere la pazienza di stare nella realtà.

Un altro punto importante oltre al gruppo e a questo entrare con il paziente nella realtà sviluppando una memoria episodica, è un certo atteggiamento in cui è importante la presenza del terapeuta. Questo tema della presenza era molto sentito tempo fa dagli psicoanalisti; ultimamente meno, ma col discorso dell’empatia adesso ha ripreso piede. Cosa significa lapresenza del terapeuta? Bisogna che il terapeuta faccia sentire in qualche modo che è attivo, che prova emozioni, ma non le prova in modo devastante, le prova in un modo trasmissibile ma non esplosivo. È molto importante che il terapeuta accetti in una certa misura di farsi vedere con qualche emozione che prova, per esempio un’emozione di dispiacere se l’altro sta male, o di rabbia se l’altro ti attacca. Con queste persone non funziona fare l’imperturbabile: l’analista neutrale che qualunque cosa succeda sta seduto sulla propria poltrona e non si muove, non si agita mai, suscita invidia, una sensazione di irraggiungibilità e un senso di solitudine. Nel migliore dei casi suscita un’idealizzazione irraggiungibile: “è un uomo meraviglioso e io non sarò mai come lui”. Questo non giova. Dato che questi pazienti hanno l’idea che l’altro sia sempre in qualche modo allarmante, che sia una figura deludente, sfuggente, che da un lato eccita e dall’altro si sottrae, è di aiuto questo non sottrarsi, questo farsi vedere…, non però nel senso del raccontare i fatti nostri, poiché i pazienti borderline non sono molto interessati, ad eccezione di quelli con forti quote isteriche. Questi pazienti sono molto interessati a sapere come stiamo con loro in quel momento, cioè al chiedersi “che effetto ti fa”.

Se io uso un tono di voce sempre uguale, se sono sempre tranquillo, non uso metafore o immagini sensoriali, oppure un linguaggio fortemente presentificato, oserei dire quasi poetico, il paziente ha l’idea che noi parliamo con la nostra scuola anziché con lui o con lei, e questo non lo rilassa. Quindi poniamoci sempre il problema della presenza. Poi poniamoci il problema del fatto che questa ripetizione che tanto ci esaspera non dobbiamo vederla soltanto come una delusione, ma anche come uno strumento: è attraverso la ripetizione all’infinito della stessa sequenza, che piano piano il nostro paziente impara a comprenderla, a dominarla e magari a prevenirla. Purtroppo non disponiamo per adesso di altri strumenti se non quello di ripercorrere tante e tante volte lo stesso itinerario, finché lentamente non viene riconosciuto in tutti i suoi particolari. Per far questo il nostro paziente deve sapere che noi gli assicuriamo la massima tranquillità, che in un certo senso ci adattiamo a lui con una grande continuità.

Applicare questa continuità nella realtà clinica è molto pesante, perché tutti noi abbiamo il diritto ai nostri momenti di solitudine, di distacco, di stanchezza e anche di rabbia. In questo senso è molto importante il gruppo perché, laddove il terapeuta principale ha dei momenti di defaillance o di stanchezza, può subentrare un’altra figura che lo può compensare momentaneamente. Vi sarebbe molto altro da dire anche riguardo ai sentimenti suscitati da queste persone: io mi sono soffermato molto sulla fatica suscitata dalla ripetizione, però sicuramente ci sono altri sentimenti: dalla mancanza di forza, alla visione pessimistica della vita, al senso di morte. Dobbiamo essere molto vivi e molto noi, convinti di quello in cui crediamo nel seguire pazienti così, che pongono alla radice domande molto forti. Si dovrebbe dire che i pazienti borderline sono potenti induttori di identificazioni proiettive, proprio perché ripropongono sempre le stesse sequenze anche con noi. Dobbiamo quindi renderci conto di come è facile che noi ci sentiamo arrabbiati, disperati, eccitati o vuoti nostro malgrado anche se questo non ci piace, di quanto siamo invasi da queste persone.

È quindi importante la supervisione, il contatto con un collega con cui c’è sintonia, un forte arricchimento di tipo culturale, bisogna leggere molti libri, aggiornarsi molto, avere un grosso input scientifico, fantastico e artistico che arricchisca la nostra mente. Bisogna poi considerare le caratteristiche della figura di accudimento, del caregiver come dicono i ‘cognitivisti – evoluzionisti’. Vi sono modalità proprie dell’oggetto allarmante tipo il padre di Kafka e ci si può chiedere se questi tipi di padri abbiano delle caratteristiche comuni: sono tendenzialmente depressi, come dice Liotti, tendenzialmente perversi come sostengono altri, sono anche loro borderline?

Se c’è un forte gruppo sufficientemente motivato, delle risorse ospedaliere e comunitarie pronte nei periodi in cui questo si rende necessario, una co-terapia di fondo per quanto riguarda l’aspetto psicologico e quello farmacologico e poi un’attenzione alle sequenze comportamentali in modo da rendere la persona capace di riflessione, una presenza linguistico – emozionale importante, vi posso dire che almeno la componente esplosiva, automutilativa, di stabile instabilità viene meno abbastanza presto. Quello che non viene meno è la insoddisfazione. Io vedo che dopo un po’ questi pazienti cominciano a lavorare, magari si legano anche a un compagno o a una compagna. Quello che è difficile superare è l’insoddisfazione, questa sensazione che manchi qualcosa: questa è veramente la lotta più dura. Credo che questo aspetto si modifichi soltanto quando questi pazienti sperimentano per molti anni un rapporto che modifichi la convinzione che non ci si possa fidare di nessuno. Dobbiamo mettere in bilancio questo stato di inquietudine insoddisfatta, di sensazione che l’allarme è sempre dietro l’angolo, anche con la persona più amata. Questo è ancora più penoso che non i tempi eroici in cui la grande battaglia era quella per salvar loro la vita.

Longano – Ripropongo alla valutazione critica di Correale quello che è un mio schema mentale sull’effetto che ha provocato l’esperienza con il borderline. Credo che se un merito ha avuto il paziente borderline è quello di aver messo definitivamente e sostanzialmente in crisi i capisaldi dello psicoanalista. Tornando alla definizione vecchia, tu citavi il capitolo dell’Arieti, di “caso limite”, limite nel senso che non è né L’Es che sopravanza l’Io, né il Superio che tiranneggia sull’Io. Caso limite voleva dire proprio patologia di mezzo che attiene sostanzialmente alla forza ovvero alla debolezza dell’Io che deve regolare il nostro comportamento. Il termine borderline è stato un po’ un equivoco proprio per questo effetto che ha avuto sullo psicoanalista. Borderline era ancora la traduzione inglese del vecchio termine “patologia di confine”. Questo per dire che se lo psicoanalista, rinunciando alla neutralità, ha potuto affrontare anche con buoni esiti le patologie psicotiche classiche, non è bastato rinunciare alla neutralità per fronteggiare i problemi posti dal borderline. Per questo occorre addirittura arretrare rispetto a un altro caposaldo, quello della non direttività della terapia analitica. Ci vuole quella posizione direttiva e selettiva per poter reintrodurre il senso, la rappresentazione della gerarchia, perché il problema è appunto che il paziente borderline rispecchia una società sregolata nel senso che mancano le regolazioni gerarchiche. Questo si vede bene anche negli stati oniroidi di cui parlava Correale: quando sono usati a scopo terapeutico e si crea questa modificazione della coscienza in senso dissociativo, c’è però sempre il famoso io osservatore che vigila in un angolo a far sì che la situazione non deragli. La dissociazione esperita sia pur transitoriamente dal borderline comporta il deragliamento per assoluta mancanza dell’io osservatore. Credo che il problema sia stato dibattuto a lungo dagli psicoanalisti perché richiede un intervento che pare quasi psicoeducativo più che terapeutico in senso stretto.

Locatelli – Quando parla di tenerezza allude a un benevolo rispetto?

Correale – Credo sia importante, quando si parla di qualcosa, trasmettere in una certa misura la cosa di cui si parla. Questo dovrebbe spingere tutti noi a riflettere sul linguaggio che usiamo, perché c’è un linguaggio che ci avvicina alle cose e c’è un linguaggio che ci distanzia dalle cose. Io direi che però la tenerezza è qualcosa di più di un benevolo rispetto.

C’è un concetto di un filosofo Agamben, di cui abbiamo parlato a Roma ultimamente con dei colleghi. In particolare Cimino si è occupata di questo aspetto: è il concetto di “nuda vita”. È il sentimento di commozione che si prova quando si vede un essere vivente che ci fa vedere proprio che vive. Forse nell’esperienza comune quello che più si avvicina a questo è suscitato dal vedere un cucciolo, ad esempio un gattino che si mangia dei croccantini. Penso che quasi tutti noi ci fermiamo e lo guardiamo, è difficile che si passi indifferenti. In linea di massima è difficile che lo spettacolo di un piccolo animale che si nutre, come un uccellino che beve in una pozzanghera o uno scoiattolo che mangia la sua noce non faccia provare una certa commozione, la commozione di fronte alla vita immediata, all’essere vivente che vive e basta, al fatto che vive al di là di quel che fa. Io credo che sia molto importante questo sentimento che fa parte dell’accudimento. Il bambino deve sentire che nella cura non c’è soltanto il nutrirlo, l’accarezzarlo, lo stimolarlo, il raccontargli le storie, ma c’è quella sensazione di piacere trepidante che ha l’adulto nel sentire un essere vivo che è suo figlio. È una sensazione sensualizzata ma non sessualizzata: quest’ultima si presenta in vari gradi, ed entro certi limiti esprime un sentimento che non necessariamente deve arrivare alla genitalizzazione o alla stimolazione sessuale.

A me pare che il concetto di nuda vita ci possa aiutare. Io ho visto per esempio che nei borderline il problema dei piccoli animali è molto interessante, sempre. C’è sempre nella loro storia questa funzione, assolta da un gattino o da un cane che si portano sempre appresso. Nel mio servizio per esempio abbiamo avuto spesso questo problema: chi tiene il gatto alla paziente che deve essere ricoverata per quindici giorni? Sembra una stupidaggine ma non è così. Io ho un collega, un medico che ha tenuto il gatto di una nostra paziente che è stata ricoverata in diagnosi e cura per quindici giorni. Il transfert è fatto anche di questo: bisognava tenerglielo o no? Si potrebbe obiettare che così facendo ha sessualizzato, ha stabilito con questa paziente un’intimità eccessiva. Si potrebbe d’altro canto dire di no: ancora una volta dipende da come questo medico lo fa, più che dal fatto in sé. “Ti tengo il tuo gattino, poi quando torni a casa te lo ripigli”. Questo concetto della nuda vita può essere compreso meglio, più che il rispetto, pur essendo quest’ultimo molto importante. Posso affermare che nella mia esperienza ho sempre riscontrato che sullo sfondo di questi rapporti movimentati esiste una figura a cui viene affidato il compito di rappresentare la continuità. Ho visto con stupore che quando il paziente borderline trovava una relazione a cui affidava questo compito c’era un miglioramento sistematico su tutti i piani. Se il paziente si legava a questa figura, pur subentrando l’ambivalenza con i litigi e gli scontri, questa relazione si rilevava un’esigenza così importante da essere o sullo sfondo, come nel caso della madre o del padre (presenti anche non vedendosi su uno sfondo fantasmatico) oppure da orientare tutto quello che si fa in vista di arrivare a formarla il prima possibile. Clinicamente è di grandissima importanza verificare se esiste questa figura e, se non c’è, è necessario chiedersi come si possono instaurare le condizioni perché questa figura compaia. Io trovo che non sia possibile indicare ai borderline una via di autonomia ed indipendenza, conviene piuttosto accettare la loro dipendenza. “Lo so, lei ha veramente bisogno di qualcuno che le stia accanto, speriamo di trovarlo presto”. L’autonomia può essere una conquista che viene più avanti.

Io penso che il “paradiso perduto” sia a sua volta un’idealizzazione compensativa. Credo che nessuno lo abbia. Esistono rapporti più o meno buoni, ma l’idea che ci sia stato un paradiso poi perduto, la interpreterei come un’idealizzazione compensativa. È come se si dovesse localizzare laggiù un qualcosa. Condivido insomma che nella memoria del paziente del paradiso perduto ci sia una modalità idealizzante che compensa questa famosa mancanza di tenerezza. Noi abbiamo bisogno di idealizzare, però credo che nel paradiso perduto questa idealizzazione assuma delle caratteristiche un po’ estreme, che diventano distruttive perché qualunque cosa paragonata diventa inadeguata. In genere i paradisi perduti contengono in sé la cacciata, come nelle pitture dove figurano sopra Adamo ed Eva nel Paradiso e sotto sono cacciati via orribilmente da un Dio arrabbiato. Il paradiso perduto è quindi l’altra faccia della cacciata.

Marta Vigorelli – Vorrei parlarvi ora dell’approccio al contesto familiare del paziente borderline.Partiamo da una frase di Masterson del 1975. Era questa una data precorritrice, perché in Italia nel ’75 i familiari erano considerati solo una interferenza nel progetto di cura se non addirittura un ingombro: non dimentichiamo che era ancora l’epoca dei manicomi. Masterson, psichiatra statunitense di orientamento psicodinamico, afferma che “non ci si può aspettare che la patologia borderline sia efficacemente curata senza modificare l’ambiente sociale primario del soggetto, che per molti è rappresentato dalla famiglia”. Questo postulato forte viene citato in un libro che io consiglio – insieme a quello di Correale -: La personalità borderline (tradotto da Cortina) perché è molto chiaro e operativo: è un libro di Gunderson, l’unico autore che si occupa di inserire, tra le tipologie dei trattamenti, anche quello per i familiari.

Come credo voi sappiate, l’interesse a coinvolgere i familiari nella cura è partito dalla psicosi con metodologie appropriate ma, come i modi di affrontare la patologia borderline emergente sono diversi e specifici, così anche per i familiari dei borderline gli studi e gli approcci sono nuovi e un po’diversi. Gunderson ci aiuta a vedere alcune tipologie e Correale ne ha ben descritto una, quella della famiglia che definiremmo caotica. Un quadro veloce: è una famiglia maltrattante, abusante, generalmente di livello psicosociale medio-basso con difficoltà economiche, nella quale questo clima di violenza, di trascuratezza, di iperstimolazione sessuale e verbale, promiscuità in cui il corpo è protagonista centrale, determina uno stato di allarme costante per il paziente. Vi troviamo genitori o qualche componente della famiglia spesso tossicodipendente o alcolista; in ogni caso siamo di fronte ad adulti sopraffatti dai propri problemi, che non sono in grado di rispondere ai bisogni e alle richieste dei figli.

C’è però anche un’altra tipologia, e i casi che vi porterò appartengono di più a questa seconda. È la tipologia presente per lo più nelle classi sociali medio-alte, quella della famiglia ‘perfetta’, votata al successo. Marsha Linehan la riferiva come tipica della famiglia americana, ma potremmo dire che è tipica della mentalità occidentale che dà estrema importanza all’autocontrollo, alla affermazione personale e alla padronanza di sé come parametri di riuscita sociale; in queste strutture familiari dominate dai forti aspirazioni narcisistiche dei genitori, fin dall’inizio viene imposto ai figli (o a qualcuno di loro in particolare) un copione, e non viene tollerato che esprimano liberamente le proprie emozioni. Il messaggio prevalente è quello che si debba far leva sulle proprie forze, sul “pensare positivo”, e il fallimento di queste aspettative provoca disapprovazione, critiche e rifiuto. In questo tipo di famiglia non c’è spazio per la dimensione della tenerezza e dell’affettività, del riconoscimento e comprensione degli stati emotivi interni del bambino, specie quelli di tristezza, o di malessere e di rabbia o eccitazione. L’accudimento è demandato a varie e intercambiabili figure esterne, con una scarsa personalizzazione. In queste famiglie viene sperimentato quello che Marsha Linehan e Fonagy definiscono un ambiente invalidante, che disconferma i sentimenti, le emozioni, i disagi, che un bambino normalmente nella sua crescita può provare. Tutto questo è avvertito dagli adulti come qualcosa da banalizzare, ignorare, da distorcere, o da eliminare ed espellere perché infastidisce. Soprattutto il suo bisogno di dipendenza, è sentito come ‘un troppo’ da sopportare, incompatibile rispetto al progetto di una certa immagine che deve funzionare ed essere sempre vincente. Quando manca il riconoscimento dell’autentico stato interno da parte dei familiari, o addirittura le loro reazioni sono imprevedibili e incostanti, la conseguenza sarà che anche il bambino non riuscirà a imparare a modulare, a regolare le sue emozioni, e tantomeno a comprendere quelle degli altri. Ha in genere due fondamentali possibilità, tra le quali oscilla: o le coarta inibendole fortemente, oppure le esagera parossisticamente per attirare su di sé l’attenzione. E quando ciò accade, allora i familiari intervengono, anche calando per un po’ le pretese, quasi sempre per vergogna sociale; inizia così l’escalation del bambino “difficile” e in seguito dell’adolescente turbolento.

Questi sono alcuni dei fattori di rischio da cui sortiscono le personalità borderline, magari fortemente dotate sul piano intellettivo, anche con performance efficienti in alcuni settori della vita, salvo avere un difficile o impossibile controllo delle emozioni; vulnerabili ai fallimenti, presentano quel buco enorme che poi si riempie con gli stessi sintomi e con gli stessi vissuti di qualsiasi borderline, di qualsiasi livello sociale (soprattutto abuso di sostanze – in particolare la cocaina -, divertimenti estremi, relazioni perverse e pericolose).

Vorrei però fare un passo indietro con una premessa che ritengo importante, e parlare un po’ della difficoltà che si è avuta storicamente nei nostri servizi pubblici, ma anche nel privato, ad inserire la dimensione dell’ambiente del paziente all’interno della nostra ottica di cura, fin dal primo contatto. Vorrei trasmettere in questo nostro incontro, soprattutto questo modello.

Il paziente grave (psicotico o borderline) quando arriva con la propria soggettività carica, pregna di sofferenza è indubbiamente un soggetto che ha una sua unicità da accogliere, però è anche un nodo di legami, di una “rete orizzontale” di rapporti che costituiscono il suo ambiente attuale e che dovremmo cercare di visualizzare chiedendoci: quali sono i legami di cui il paziente non può fare a meno e che entreranno attraverso i suoi racconti e i suoi vissuti in questa stanza, in questo servizio, in questo luogo di cura? Al contempo il paziente è anche un nodo vivente di una rete “verticale” che proviene da una genealogia: è, come dice Kaes, ‘esito del suo passato generazionale’ e soprattutto di quanto c’è di irrisolto e di sospeso di questo passato. Non si tratta solo di un tema che mi sta a cuore come accennava Correale, ma di un paradigma ormai imprescindibile, una sorta di fattore comune sl quale convergono la teoria sistemica, la teoria dell’attaccamento e la visione psicoanalitica della transgenerazionalità. Si traduce concretamente in un peculiare assetto di ascolto e di osservazione multidimensionale con cui accogliere il paziente, che consente, già fin dal momento aurorale dei primi incontri, di individuare abbastanza rapidamente i disturbi, le sofferenze non solo individuali, ma anche quelle che riguardano la rete familiare mettendo a fuoco i conti sospesi, i lutti non elaborati, i segreti implosivi, i nuclei traumatici che emergono dalla trama di diverse generazioni. È così possibile raccogliere un bagaglio conoscitivo ed emotivo che, anche se non restituibile nell’immediato al paziente (per questo è necessaria una grande cautela empatica), diviene una bussola straordinariamente efficace per orientarci, senza lasciarci prendere da quello sconforto e dalla confusione che questi pazienti ci inducono.

Due sono quindi le coordinate fondamentali da tener presenti: l’incrocio tra una dimensione di campo, sincronica, orizzontale e una dimensione verticale, diacronica, transgenerazionale, come orientamento utile per impostare una valutazione e un progetto di cura specie con il paziente psicotico, laddove nell’incontro con lui proprio il suo tempo immobile e la perdita dello spessore psichico (Correale 2001) ci appaiono con una storia remota e spesso inaccessibile.

A questo proposito ho scoperto in prima persona l’importanza di questo tipo di ascolto e del coinvolgimento dei familiari nel progetto di cura, dopo l’esperienza di fallimento, quando ero responsabile di una piccola comunità per psicotici a Milano negli anni ’80. Allora i familiari erano giudicati come una sorta di interferenza e l’identificazione dei curanti era solo con i singoli pazienti. Eravamo partiti con molto entusiasmo, ci occupavamo dei figli con l’illusione di sostituirci idealmente alla famiglia che li faceva ammalare.

Con l’esperienza e con il tempo poi, abbiamo cominciato a notare una sorta di tela di Penelope, per cui si lavorava di giorno in questo centro diurno comunitario e poi il giorno dopo i pazienti azzeravano i miglioramenti ed era come se tutto il lavoro venisse vanificato, al di là delle consuete oscillazioni che comporta la psicosi. Questo perché, sia le serate, la notte e i weekend erano dei momenti in cui i legami patologici con i familiari andavano a logorare e a disfare quanto si andava costruendo: la prima reazione controtransferale era quella di un tremendo fastidio, di profondo odio. Finché però, dopo molto discuterne, siamo riusciti a capire e ad accogliere anche la dimensione sofferente del contesto da cui il paziente proveniva: anche il suo ambiente di relazioni è altrettanto malato e può diventare un soggetto potenziale che collabora alla cura del figlio.

Per orientarci nella comprensione dei familiari e dei casi gravi, abbiamo cominciato ad adottare un paradigma transgenerazionale presente nelle teorie che ho citato (psicoanalitica, sistemica, attaccamento) e un’intervista esplorativa di cui vi parlerò. Già Freud, aveva compreso che non c’è nulla tra le generazioni che può rimanere del tutto segreto. In un punto di Totem e tabù dice: “se non c’è niente di importante che una generazione riesca a nascondere a un’altra restano tuttavia soggetti sui quali regge il negativo della trasmissione. La cosa più difficile da ammettere è che essi possano acconsentirvi e, in un modo o nell’altro, ricavarne un crudele vantaggio”. Quasi sempre però, il crudele vantaggio è più dell’inviante (che si libera dal fardello) che della fragile vittima.

Il punto che ci interessa come terapeuti è soprattutto questo tema del “negativo” (già Freud e poi Green lo definisce così) anche se, ben inteso, nelle famiglie non viene trasmesso solo questo, ma anche un insieme di valori, di comportamenti, di aspetti che possono invece costituire una ricchezza e una vera risorsa. In proposito, gli studiosi del paradigma generazionale fanno una distinzione importante tra la trasmissione intergenerazionale positiva, che è quella che comprende tutto il bagaglio, il patrimonio affettivo, culturale, mitopoietico che può essere pensato ed elaborato dagli scambi familiari, che consente nuove identificazioni e la transgenerazionalità traumatica, intesa invece come passaggio, dice Racamier, trasporto difettoso di strutture e di contenuti psichici impregnati di concretezza e sensorialità, frutto di un deficit di simbolizzazione da parte di un genitore, espulso e forzatamente immesso nel ricettacolo più idoneo, cioè più vulnerabile. Si tratta di eventi impensabili, indicibili, “oggetti bruti”, che producono identificazioni alienanti, ma anche lutti congelati, fatti riprovevoli e violenti rimasti segreti.

Questa trasmissione del negativo, come qualcosa di indigeribile, che si impone come un corpo estraneo, è votata alla “coazione a ripetere”, tema già presente nelle tragedie di Eschilo che Correale ha citato, quello per cui ci vogliono sempre almeno tre generazioni perché avvengano gravi disastri e in particolare la psicosi o la patologia borderline. Non ci ammaliamo mai da soli, è sempre un sistema relazionale che si ammala, però non ce lo ricordiamo spesso quando il paziente entra nella nostra stanza o nei nostri servizi. Vorrei trasmettervi questo modo di vedere come una potenzialità in più che, ripeto, accelera molto i tempi nella comprensione e nell’intervento mirato.

In questa ottica la famiglia è intesa come spazio originario all’interno del quale si dispiegano questi fenomeni. Se questi fenomeni si dispiegano lì, lì dobbiamo tornare, lì dobbiamo andare a guardare.

Sulla transgenerazionalità abbiamo una bibliografia sterminata e direi che gli psicoanalisti che si sono occupati di patologia psicotica, di gruppi e di famiglie si sono molto ben distinti su questo tema, soprattutto la scuola francese e argentina (Eiguer (1981, 1983, 1987); Abraham e Torok (1978); Guyotat (1986); Puget; Kaes (1984,1989,1993); Faimberg (1987, 1988, 2006); Enriquez (1987); Baranes (1993) e Racamier (1993) che hanno fondato riviste internazionali come Groupal e Le divan familial, ma anche un gruppo di italiani (Taccani, Pandolfi etc.) molto valido che fa capo alla rivista Interazioni diretta di Annamaria Nicolò Corigliano, che studia la connessione tra il processo individuale della cura, e l’intervento con il gruppo e la famiglia.

Come avevo premesso, in sintonia con il paradigma generazionale – e Correale l’ha ripetuto ampiamente -, vi è anche un’altra potente teoria che ha ottenuto una validazione empirica attraverso migliaia di casi e di ricerche (più di 2000) che ricoprono tutte le fasce d’età, dall’infanzia alla vecchiaia: è la teoria dell’attaccamento. Rispetto agli inizi di Bowlby e di Ainsworth, la valutazione e misurazione degli stili di dell’attaccamento è diventata molto sofisticata nelle sue differenziazioni e per constatarlo possiamo consultare un’opera quasi enciclopedica come il Manuale dell’Attaccamento di Cassidy e Shaver tradotto nel 2002 da Fioriti, che raccoglie gli sviluppi più recenti e le prospettive di queste ricerche svolte su vasti campioni anche multiculturali.

L’attaccamento come è noto, si basa su meccanismi innati e su due presupposti fondamentali: il primo è che ci sia un sistema motivazionale per cui tutti noi abbiamo bisogno di cercare conforto, cura e accudimento nei momenti di stress e di crisi. Il secondo è che, a nostra volta, tendiamo a offrire a chi è all’interno della nostra rete familiare questo tipo di aiuto e di soccorso nei momenti di difficoltà. Questo vale nel mondo animale e anche in quello umano. La teoria dell’attaccamento ipotizza l’esistenza del fenomeno di trasmissione intergenerazionale dei pattern d’attaccamento e di strutture rappresentazionali, chiamati Modelli Operativi Interni [MOI], testimoniato dalla possibilità di predire (nel 75-82% dei casi) lo stile d’attaccamento del figlio (valutato tramite la Strange Situation) a partire dalla classificazione d’attaccamento di un genitore tramite la Adult Attachment Interview (Bowlby, Main, Goldwyn, 1998) [nota 1]

All’università di Yale è stata realizzata una ricerca importante per quanto riguarda la psicosi, secondo la quale queste trasmissioni avvengono attraverso gli scambi affettivi o non affettivi intrafamiliari. Nelle psicosi i disturbi d’attaccamento del genitore e gli stili affettivi negativi – in particolare l’intrusività, l’ipercriticità e la colpevolizzazione – sono fattori di rischio che aumentano la probabilità delle ricadute e di quell’essere perennemente cronici e in crisi dei pazienti psicotici. Sulla base di questi criteri sono nate molte tecniche per coinvolgere i familiari, la tecnica di Falloon, le tecniche psicoeducazionali, che hanno cercato innanzitutto di valutare l’intensità delle emozioni espresse dai familiari, l’ipercriticità e la colpevolizzazione per aiutarli poi a modificarle.

Siccome dobbiamo parlare di borderline ci avviciniamo invece a quegli gli stili di attaccamento genitoriale che possono rappresentare fattori di rischio per il manifestarsi di questa patologia, e sono stati studiati in particolare da Lyons-Ruth, ad Harvard. Vediamoli: l’attaccamento disorganizzato e disorientato che è correlato spesso a un attaccamento irrisolto dei genitori nei confronti dei propri genitori, in particolare quando il genitore ha un lutto recente e non solo per la madre, può essere per il padre o per coloro che in qualche modo si sono occupati della cura.

La classificazione preoccupato e sopraffatto dal trauma si può evincere dall’intervista dell’attaccamento, ma anche dalla consultazione transgenerazionale, quando all’interno di un discorso a un certo punto c’è un’interruzione, ci sono delle sospensioni. Probabilmente lì vi è uno spunto dissociativo e il genitore comincia a divagare, ad andare per le sue strade in uno stato di allarme, che potrebbe far ipotizzare il fatto che rievoca uno stato in cui si sente sopraffatto dal trauma.

L’attaccamento ostile e impotente e l’irrisolto soprattutto relativo al lutto, sono stili che riferiamo sempre ai genitori. Una ricerca che ha riportato largo consenso ed una percentuale estremamente alta nei risultati è quella che ha valutato un lutto del caregiver, nella madre, che da soli due anni è presente prima della gravidanza. Questa quindi non è una mamma genericamente depressa, ma una mamma che nel proprio corpo e nella propria mente ha incistato qualcosa di morto, mentre sta dando origine a una vita. Lo spazio per un pensiero vitale subisce un restringimento in questi casi.

Ci soffermiamo però soprattutto su questo attaccamento disorganizzato e disorientato perché si riscontra molto spesso nei casi borderline che ha citato Correale e a cui bisogna rispondere attraverso una relazione sicura, di continuità e tenerezza.

Il ruolo centrale di questo legame con i genitori è radicato nella paura, ma una paura molto particolare, una paura che crea la disorganizzazione e al contempo mantiene paradossalmente il legame. Potentissimi sono questi legami disorganizzanti perché durano; ma proprio in quanto durano, dànno anche la possibilità di essere modificati se li riconosciamo e ce ne facciamo carico; e la soluzione da proporre per la cura è stata prima formulata da Correale.

Innata, dicevamo è anche la tendenza a offrire accudimento e conforto. Con i genitori o con l’ambiente primario bisogna riuscire a entrare in questo dilemma, chiamato da autori come la Main e Liotti, il “terrore senza sbocco”. Di ciò si occupano anche tutti gli studiosi dell’abuso e dell’incesto. È una situazione in cui la figura di attaccamento è al contempo fonte e soluzione dell’allarme. Nello stesso momento in cui il bambino ha la tendenza naturale ad avvicinarsi alla figura di attaccamento per ricevere conforto di qualsiasi natura, sperimenta questo bisogno di conforto di vicinanza, in contrasto però con una tendenza a fuggire prodotta dalla paura che, per svariati motivi, questa stessa figura gli suscita. Questo sperimentare la tendenza ad avvicinarsi e allontanarsi che è, come dicevamo prima, il prototipo della disforia, intensifica la paura. Proprio questo continuo alternarsi produce un’escalation della paura e la disorganizzazione del comportamento, un collasso dell’attenzione e quindi dei processi cognitivi e infine la predisposizione alla dissociazione. Questa è la sequenza vista dalla prospettiva della relazione con il caregiver.

Quando si fanno le osservazioni nella strange situation infantile si osservano due situazioni esemplari che possono rappresentare fattori di rischio, per una futura patologia borderline. Il polo meno grave: quando la mamma rientra nella stanza dopo la separazione, il bambino prima ha uno slancio gioioso verso di lei, poi a un tratto si ferma in uno stato come stuporoso, come se fosse bloccato da qualcosa, poi devia e va da un’altra parte. Il polo più grave: quando la mamma rientra nella stanza, il bambino la guarda e improvvisamente va a sbattere con la testa contro il muro. Il terrore che produce quella madre, lo induce ad andare al contempo da lei e contro il muro in un movimento autolesivo. Questi sono i due estremi di tutta una variegata fenomenologia intermedia, in cui si possono inserire infiniti casi individuali.

Accenno ora a due tipologie che possiamo incontrare quando lavoriamo con i nostri pazienti: quando il caregiver è spaventante, come nelle famiglie maltrattanti e quando invece è piùspaventato. Sono due modalità simili che producono sempre questo dilemma. Una situazione può essere quella di una madre traumatizzata da un partner violento. Nel momento in cui il bambino si rivolge a lei, va a impattare contro questa turbolenza, contro questa traumaticità della madre, mentre sono attivati sia il sistema di accudimento che quello di attaccamento in una compresenza.

Le modalità spaventanti possono consistere ad esempio in momenti in cui la mamma entra in uno stato alterato di coscienza, oppure usa dei toni di voce improvvisi, manifestando un comportamento imprevedibile. Vi sono sullo sfondo relazioni traumatizzanti precoci. Altro esempio è quello della mamma che ha litigato col partner: sulle primeè tutta eccitata, si bacia e si abbraccia col suo bambino, ma poi all’improvviso gli sgancia un pizzicotto, perché le balena il pensiero del partner con cui ha litigato da poco. Queste emozioni di paura e di collera naturalmente impattano nel bambino che si avvicina e provocano il movimento di fuga e di evitamento contemporaneo di cui si parlava.

Se invece il caregiver è spaventato, la mamma depressa con dentro il lutto di un altro bambino oppure la perdita di un proprio familiare significativo, assistiamo all’intolleranza della vitalità, del sentirsi vivo proprio dell’essere del bambino. Qualsiasi espressione emozionale è per la mamma qualcosa di eccessivo. Lo è anche un’espressione emozionale che possa avere un’intenzionalità, un motivo. La mamma dell’anoressica interpreta il pianto sempre come riferito al cibo: in questo caso è diverso il modo in cui il caregiver non riesce a interpretare, perché avverte addirittura un senso di allarme, allontana il bambino. Ci sono nei filmati di queste strange situations, scene terrificanti in cui le mamme esclamano “no… no… no!” allontanando il bambino, magari anche davanti alle sue manifestazioni di gioia. Anche la gioia o il contatto fisico possono essere per certe mamme un motivo d’allarme. Cosa può provare, sentire quindi il bambino? Arriva a sperimentare che il proprio stato di attività emozionale e corporeo costituisce un pericolo e lo avverte perché la mamma in quel momento si irrigidisce e si ritira, facendogli vivere un senso di abbandono.

Questa modalità elimina la funzione iniziale della “mentalizzazione” di cui parla Fonagy, del processo dal quale nasce la capacità di comprendere la mente degli altri [Theory of mind, TOM]. Il bambino comincia così ad assumere su di sè tutti i sentimenti negativi della madre, e coglie l’immagine che lei ha di lui come qualcosa che non riesce a gestire.

Nascono quelle figure dell’alieno, già studiate da Winnicott e da altri autori, come una presenza dentro il bambino di qualcosa che non è suo, ma che lui comunque avverte (quasi sempre a posteriori) in modo dissociato.

Nel tempo queste situazioni perdurano e, dopo i primi diciotto mesi, possono essere trasformate da dilemma in tirannia. Si tratta di bambini che spesso incontriamo nelle famiglie che ci chiedono una consultazione, che cominciano a diventare dispotici. I loro genitori non riescono ad avere una funzione calmante e di contenimento per via di questo dilemma. Attraverso queste modalità aggressive il bambino deve buttare fuori tutto questo dilemma, per riuscire a fronteggiare uno stato caotico e avere un minimo di coesione del suo sé.

Queste prime esperienze di disregolazione delle emozioni, possono creare con il tempo e la ripetizione, una maggiore sensibilità a traumi successivi. Come dicevamo non basta un unico trauma; se però c’è già una vulnerabilità, è più facile una predisposizione a subire senza elaborazione, e ad andare incontro ad un futuro collasso dissociativo. In altri casi questa situazione abusante assumerà un aspetto persecutorio e provocherà un pericolo continuo di autodanneggiamento: il bambino che sbatte la testa contro il muro o l’adulto borderline che si taglia.

Nella mia esperienza istituzionale e nei servizi interessati a cui faccio supervisione, per valutare i problemi transgenerazionali con i familiari, abbiamo utilizzato per molti anni un’intervista semistrutturata molto efficace ideata da Eiguer, uno psicoanalista sudamericano trasferito in Francia e che ho adattato alla cultura dei nostri servizi. Eiguer sottolinea moltissimo l’importanza degli organizzatori della scena familiare, in un’ottica psicoanalitica attenta alla dimensione fantasmatica, ma anche ai fatti e agli eventi cruciali cui accennavamo prima.

Innanzitutto si cerca di rintracciare le disfunzioni a carico dell’organizzatore della coppia. Come è avvenuta la scelta del partner? È stata una scelta narcisistica, anaclitica, edipica, disorganizzata? Qual è il Sé familiare relativo al senso di appartenenza, all’habitat, il corpo, la casa… per esempio i traslochi, che certe volte sono dei trigger formidabili delle crisi, quali gli ideali, i valori? Inoltre si cerca di individuare l’interfantasmatizzazione, cioè quel coagulo da cui può scaturire il romanzo familiare che nasce all’interno del gruppo.

Una considerazione su cui riflettere: nella crisi attuale della famiglia di cui sicuramente il border patisce, questi elementi organizzatori stanno ormai per diventare un po’ in disuso. Valgono molto per le crisi delle famiglie dove nascono soprattutto le psicosi, famiglie in cui si possono rintracciare tutti e tre gli organizzatori: coppia, sé familiare, un romanzo familiare. Oggi le separazioni costanti, la frammentazione delle famiglie, le multifamiglie in cui nascono questi figli (ci sono i figli del secondo marito o della terza moglie) le appartenenze multiple fanno nascere nuovi problemi. Questo schema purtroppo può essere utilizzato soltanto nelle famiglie che hanno ancora una struttura in gran parte tradizionale. Per le famiglie borderline è comunque utile coniugare anche la prospettiva dell’attaccamento.

Vediamo ora molto in breve, gli effetti di questa intervista integrata con quest’altra ottica, su una coppia di genitori di una giovane borderline, per vedere come funziona. Si tratta di una situazione che ho seguito in supervisione. Dopo i primi contatti per valutare la disponibilità dei genitori ad approfondire anche la propria storia oltre che a parlare della figlia, si propone di iniziare liberamente partendo o dalla preistoria familiare (i nonni) o dalla storia delle due famiglie, ricostruendo sia il ramo materno che paterno; o da quella della coppia dal momento del fidanzamento fino alla matrimonio e al progetto del figlio, infine dalla storia del figlio o figlia in questione.

I genitori di cui stiamo parlando, erano partiti dalla storia di Karen, una ragazza di vent’anni, che aveva tutti i disturbi che Correale ha descritto ampiamente: irrequietezza, disforia, autoloesività, abuso di sostanze, conflittualità con entrambi i genitori. Si tratta di una figlia unica di una famiglia benestante; dato che entrambi i genitori hanno conoscenze nell’ambiente sanitario, dopo averla fatta sottoporre in un modo massacrante a una serie di controlli medici che hanno escluso cause organiche, hanno avuto la facilitazione di indirizzarla a una cura psicologica. Vista la situazione infernale in famiglia, i curanti pensano a una comunità.

Nota importante: i genitori del paziente borderline, per poter ricostruire la propria storia hanno bisogno di un momento di calma, di uno spazio di tranquillità che consenta di mantenere per un tempo definito, una certa distanza emotiva ma anche fisica dal congiunto, che è utile per decongestionare il clima turbolento, altrimenti è impossibile ricostruire alcunché. Il fatto che questa ragazza sia stata accolta in una buona comunità, inserendosi senza scappare subito, ha creato uno spazio per accogliere ed ascoltare la storia di questa famiglia, perché diversamente la famiglia si trova sempre e solo nell’emergenza o nell’allarme, tende a ripetere forsennatamente sempre le stesse dinamiche in un groviglio inestricabile, e non riesce ad attivare una funzione narrativa. La possibilità di un momento di distanza è pertanto sempre indispensabile.

Notiamo subito che il ramo materno di questa famiglia non presenta grossi problemi e ci soffermiamo su quello paterno. Il genogramma, [vedi appendice] utilizzato dai sistemici, è molto utile per vedere insieme i risultati del loro racconto: c’è un padre, una madre e Karen, la figlia. Osserviamo la terza generazione: la genealogia del padre presenta i suoi genitori come una coppia molto compatta, che tende a escludere i figli (due) e una fantomatica zia. Ci chiediamo subito quale fosse stato il trigger della malattia e i genitori ci dicono che si tratta proprio della morte di questa zia ‘importante’, quando la ragazza aveva dodici anni. Successivamente a questo evento sono comparsi svenimenti, sintomi di tipo somatico, e poi si sono rivelate tutte le manifestazioni del disturbo borderline.

Ci focalizziamo quindi sui legami evidenziati come più intensi e concreti, e che ci hanno depositato qualcosa sul piano emozionale; in particolare il fatto che il padre è stato abbandonato dalla propria madre – la nonna di Karen – in precocissima età. Lui era cresciuto evitandola perché lei aveva distanziato la prole e di fatto aveva sposato l’azienda, trascurando i figli. Il rapporto tra la nonna e il figlio – il padre di Karen – è fatto solo di cose: oggetti ricchissimi come macchine, abiti firmati, involucri d’immagine.

In seguito a questo abbandono il padre si attacca naturalmente a qualcun’altro della famiglia. Nasce così un coinvolgimento molto intenso con la zia zitella che lo adora, e instaura con lui un legame vischioso con un misto di controllo e iperprotezione. Ora, quando il papà e la mamma di Karen si sposano, viene a crearsi una coppia che, all’inizio, sembra funzionare fino al momento della nascita della bambina. La comparsa di questa comincia a incrinare gradualmente l’equilibrio.

Sembra che i coniugi non siano preparati a sviluppare una nuova funzione, quella genitoriale. Ci chiediamo del resto come sarebbe stato possibile, dato che il padre nega in pieno il distacco dalla famiglia d’origine, e la madre manifesta aspirazioni insoddisfatte per un senso di inferiorità rispetto alla famiglia del marito, socialmente e culturalmente più elevata.

Infatti anche se la madre crea una buona relazione con la piccola (pur non sostenuta dal marito che si defila), dopo i primi due anni scatta in lei un meccanismo di espulsione di questo legame, con delega di accudimento alla zia che, nel frattempo, si è insediata nell’abitazione accanto, si intromette continuamente e in pratica comincia a convivere con loro. Il confronto con l’altra figura femminile, laureata e più colta, stimola nella mamma un senso di inconsapevole competizione che si sfoga nel carrierismo lavorativo e le fa perdere il contatto diretto e continuativo con la figlia. Anche il padre dalla nascita della bambina fino al lutto della zia non se ne occupa affatto: la evita, immerso in pieno nei suoi problemi di affermazione narcisistica all’esterno della famiglia.

Come si può notare, qui la disorganizzazione non nasce da condizioni terribili del tipo di quelle descritte nei paragrafi precedenti. In questo caso nasce invece da una serie di situazioni intrecciate tra loro, che però alla fine vanno a richiamare qualcosa che proviene dalla generazione precedente. La bambina si attacca alla zia e non alla mamma, ripetendo il sistema del padre. La coppia coniugale non funziona assolutamente come coppia genitoriale, e pian piano si raffredda anche nella sessualità, perdendo lo spazio di intimità e di vitalità. La coppia che permane è quella della generazione precedente, del padre con la zia, con questo legame invischiato. Immaginate come può essersi sentita la mamma di Karen .

Inoltre la disorganizzazione di Karen nasce dalla compresenza conflittuale e non riconosciuta tra due modelli, quello della zia, permissivo fino all’assenza di confini e differenze generazionali (la zia zerbino che favoriva la tirannia dispotica della bambina in una escalation di richieste) e il modello della madre che, completamente espropriata dalla propria funzione, interviene in modo rigido, pretenzioso e anaffettivo provocando reazioni a catena.

Con la morte della zia (lutto non elaborato, tant’è che il padre ne parla al presente) si riattiva nel padre l’antica modalità relazionale, che trasferisce sulla figlia preadolescente. L’ipercoinvolgimento si trasmette transgenerazionalmente, e Karen tra i dodici e i venti anni manifesta completamente la sofferenza borderline: si accende un’intensa conflittualità con la madre, che torna in campo a riprendere il potere infierendo sulla figlia e invalidandola un po’ su tutto, dagli stati d’animo alle performances scolastiche; mentre il padre entra invece in uno strettissimo rapporto con lei, di eccitazione reciproca e di controllo estenuante.

La vita della coppia appare, da questo momento in poi, completamente e improvvisamente votata alla figlia malata, con esclusione di ogni altro interesse e con grandi difficoltà a gestire i comportamenti nella guerriglia quotidiana. Avendo da sempre delegato l’accudimento alla zia, manca loro quel necessario, graduale percorso di condivisione nella crescita emotiva ed affettiva insieme alla figlia. Non hanno altri strumenti a disposizione se non quelli concreti (la punizione, le visite mediche ossessive, etc.) che si rivelano fallimentari per avvicinarsi al malessere di Karen e per comprenderlo. Ciò spiega anche il riconoscimento così tardivo della natura psichica del disagio.

Dopo il lutto, la componente di non differenziazione tra le generazioni e l’urgenza di colmare il vuoto affettivo creatosi, emerge in tutta la sua potenza: la coppia genitoriale, che avrebbe finalmente l’occasione di ricostituirsi e riappropriarsi della propria funzione, drammaticamente crolla. La madre, che si propone come figura più “normativa” (lei stessa si definisce durante l’intervista “la cattiva, il giustiziere”) è ridotta a bersaglio dell’ostilità di Karen, che fantastica di eliminarla dalla scena familiare, mentre la nuova relazione che si crea tra il padre e la figlia malata ricalca in tutto e per tutto il legame con la zia (“sono diventato come la zia per Karen”, come farà notare il padre stesso durante la restituzione) riproponendo la stessa fusionalità invasiva che non lascia spazio per strutturare un’identità differenziata. [nota 2]

L’intervento in questi casi deve puntare a contenere l’ansia dei genitori sollevandoli temporaneamente da un contatto quotidiano che aiuta a ridimensionare il coinvolgimento e allentare la stimolazione del paziente, senza però escludere o delegare in toto la funzione genitoriale. È di fondamentale importanza a questo scopo, il recupero della dimensione di coppia, di uno spazio in cui iniziare a riconoscere innanzitutto le proprie necessità di persona, di partner, prima che di “genitore di un figlio malato”.

In questa famiglia, l’indice prognostico favorevole è dato da un movimento evolutivo nelle dinamiche relazionali nell’arco dei pochi colloqui di consultazione; mentre all’inizio dell’intervista, la comunicazione era monopolizzata dal tema dilagante del malessere di Karen, già negli ultimi due incontri i genitori hanno iniziato ad accennare alle piccole cose che stanno ricominciando a fare insieme con piacere, come coppia dopo tanti anni… riprendono a scherzare tra di loro e si avverte una maggior complicità. L’intervista stessa, d’altra parte, sostiene questo processo, sollecitando i coniugi a ripercorrere la propria storia comune, aiutandoli a ricordare il senso del loro stare insieme. La restituzione è stata impostata partendo proprio dalla valorizzazione di questa graduale ridefinizione di una funzione di coppia: si è spiegato che per Karen il fatto di poter riconoscere la presenza di uno spazio nel quale i genitori esistono come coppia e non soltanto come genitori, ha un valore strutturante rispetto al quale assumere una posizione differenziata che può farla sentire “unica”, ma con una sua individualità.

Si è pensato insieme anche al modo di rapportarsi a lei in questo momento, sia per quanto riguarda il ruolo della mamma, fondamentale anche in vista di una identificazione femminile, sia per quello del papà, che deve imparare a contenere la propria tendenza a soddisfare a tutti i costi le continue richieste di rassicurazione e a regolare i limiti e i confini.

Complessivamente, nel corso della consultazione (costituita da sei colloqui) i genitori hanno acquisito gli strumenti per riconoscere queste dinamiche e soprattutto un nuovo punto di vista per capire la natura dei legami trasmessi. Si è ben presto creato un cambiamento: con la figlia in comunità la coppia rinasce come tale, la mamma recupera la sua funzione modificando i modi normativi e viene privilegiata la sua presenza negli incontri in comunità con la figlia. Osservando il modo con cui gli educatori entrano in relazione con Karen e le positive reazioni della ragazza, la madre comincia a scoprire un nuovo modo di guardarla, di stare con lei, di ascoltare quello che sente. Anche il legame con il padre pian piano prende la giusta distanza e modulazione. In brevissimo tempo il groviglio si snoda. La possibilità di individuare e di intervenire da subito sui legami che non funzionavano, li ha molto aiutati a riprendere il percorso evolutivo che naturalmente avrà bisogno di tempo per completarsi.

Domanda del pubblico – Quando lei parla di questi segreti familiari intende che essi debbano essere esplicitati anche con i pazienti borderline nella seduta?

Vigorelli – Il segreto è tale e ci vuole un grande rispetto, perché protegge quegli equilibri familiari che l’esplosione della malattia ha messo in crisi, ma che sono stati costruiti strenuamente per molti anni. L’intervista può favorire e facilitare la comunicazione e la rivelazione, creando una grande sollievo in genere dal senso di colpa e un’apertura di nuovi spazi che erano bloccati e possono essere animati da un’esperienza presente e vitale. In alcuni casi il segreto si può inferire attraverso delle lacune nella comunicazione, dalle sensazioni controtransferali che si hanno di ambiguità, dalle sensazioni prodotte dal tipo di comunicazione, in cui si tocca con una parola l’argomento ma poi ci si ritrae e non si deve assolutamente forzare in questo caso.

Ciò che importa è che il terapeuta possa già avere dentro di sé una predisposizione all’ascolto o a mettere in forma un pensiero, un quesito aperto e non un accecamento denegante: questa è la differenza. La negazione è tipica dell’identificazione con l’aggressore. Quanti psicoanalisti dicono che gli incesti e gli abusi non esistono e sono delle fantasie paranoidi. Un conto è questo atteggiamento reattivo già identificato con l’abusante, però ammantato di psicoanalisi, un conto è quello spazio e quell’interrogativo che può nascerci dentro tale per cui, senza giudizio o condanna a priori, il segreto può poi essere comunicato o comunque lo si tiene presente quando si ha a che fare con il paziente. Non è mai da forzare. Questo atteggiamento differisce anche dal metodo del terapeuta poliziotto di molti gruppi che si occupano di abuso infantile o di minori; sottoponendo allo stress continuo di un interrogatorio tendono ad aumentare la fragilità e la tendenza dissociativa dei bambini e dei ragazzi. Questa è una linea non condivido assolutamente anche perché non dà dei frutti e crea ulteriori danni.

Locatelli – Ero curioso di chiederti, Marta, se hai visto il film “Fiorile” dei fratelli Taviani, perché è un’interessantissima storia transgenerazionale dal 1700 ai giorni nostri. Mi aveva colpito quando l’ho visto quindici o vent’anni fa e trovo che contenga un po’ tutto quello che hai detto. Questo problema dell’occuparsi della rete, dell’estendere l’intervento al di là del paziente, alla famiglia allargata, alla famiglia estesa, alle generazioni precedenti è un problema che mi sto ponendo. Mi domando in quali circostanze è bene e opportuno procedere nella forma che dici, perché la mia impressione è che non sia sempre necessario estendere l’intervento all’ambiente circostante. Ricordo di un terapeuta che ha raccontato di una moglie che subiva il sadismo del marito. Arrivato ad uno stallo nel lavoro terapeutico, convoca il marito chiedendogli che vantaggi pensava di avere dall’essere sadico, e a lei che vantaggi pensava di avere dall’essere masochista. Non conosco il seguito della storia ma sulla base della mia esperienza non è sempre necessario fare questo intervento. Aggiungo anche che non ho esperienza di borderline così come sono stati descritti. Sto cercando di capire quando è opportuno fare questo tipo di intervento e quando non lo è; perchè posso giocarmela io nel transfert attraverso il quale arrivano tutti i contenuti e gli oggetti interni del paziente.

Vigorelli – È interessante e importante questo richiamo a una differenziazione, ma io ho descritto innanzitutto un nostro assetto nell’accoglimento del paziente, che può non comportare necessariamente il chiamare in campo direttamente le figure familiari. È come lo si pensa, come lo si accoglie, come ci si incuriosisce. Io per esempio nei primi colloqui, anche con pazienti meno gravi, vedo subito se c’è un livello di individuazione del paziente che può consentire un certo lavoro o se sarà utile chiamare qualcuno dei familiari, sempre che il paziente sia d’accordo.

Comunque a livello privato è più difficile che arrivino i familiari, salvo nei casi di qualche paziente giovane o molto grave. Nei servizi dipende dall’indice di gravità e da quanto la coazione a ripetere di queste relazioni traumatiche danneggia il paziente al punto da rendere necessario lavorare per sciogliere questi intrecci e questi dilemmi. La ricetta è sempre la costruzione di un attaccamento sicuro, stabile come diceva Correale, continuativo e il più possibile coerente. Al contempo noi dobbiamo vederlo anche dall’altra parte, cioè dal punto di osservazione di qualcuna di queste figure che incombono in modo così pressante. Quella che ho proposto è soprattutto una modalità di accoglimento nella multidimensionalità. Se ci poniamo così riusciamo subito a vedere a che punto è il paziente, se ha un tipo di individuazione, che cosa può avere ereditato, se c’è un’area di segreto, se ci sono delle zone non pensate. Nei servizi pubblici il livello di gravità è più evidente e spesso bisogna intervenire concretamente, magari non su tutte le figure familiari, ma in particolare sulle relazioni centrali che, come diceva Correale, inducono questi meccanismi.

Foresti – Vorrei chiedere ad Antonello Correale qualche delucidazione sui concetti di funzione a posteriori e di narrazione e rinarrazione che compaiono molto nei suoi scritti e come essi possono integrarsi nel discorso di oggi.

Correale – Sulla funzione a posteriori credo sia importante tener presente che quando c’è il momento della turbolenza, della crisi, cioè quando si ripete la frattura della relazione importante che determina la sequenza esplosiva, con disforia, iperattività, tensione, rabbia, dolore, dissociazione, in quel momento ciò che si può far arrivare al nostro paziente non è un grande ragionamento. Gli si può far arrivare un richiamo paziente, fermo, saldo alla realtà, al fatto che forse le cose non sono proprio esattamente andate così, che non si deve dimenticare che in altri casi queste rabbie si sono modificate o semplicemente se il dolore è troppo forte ci vuole una rassicurazione, una presenza autentica. Le condizioni mentali sono in quel momento limitate dalla crisi emozionale. Quindi pretendere che in quel momento la persona faccia un’analisi del come sono andate le cose, non è utile e anzi può diventare esasperante e colpevolizzante, oppure il terapeuta non avvertito di questo può attribuire al paziente una forma di aggressività, di cattiveria o di onnipotenza. Credo che questo sia un errore molto grave. Penso che uno degli aspetti positivi dell’aver introdotto l’elemento dissociazione è anche quello di avere un po’ limitato questa sottolineatura così forte sull’aggressività e sulla rabbia, come unica forma del dominio del paziente sui rapporti umani. Questo non vuol dire giustificare o avallare comportamenti violenti, anzi a me certe volte è capitato di dover fare degli interventi repressivi come dei ricoveri in ospedale contro la volontà del paziente. Quando è necessario si devono fare, non si può far finta di nulla, specialmente se sono a repentaglio la sicurezza o la vita del paziente o di altre persone. La funzione a posteriori secondo me subentra dopo, cioè quand’è passato l’elemento turbolento e si è ricostituita una certa possibilità di analizzare insieme che cosa è successo. “Adesso che sei ritornato tu, possiamo anche vedere di chiederti se ti sei accorto che di crisi così ne hai avute altre otto uguali”. La funzione a posteriori è di distinguere il momento in cui si può fare questo discorso. Una cosa è parlare con una persona che in quel momento è dimezzata e una cosa è parlare con una persona che in qualche modo ha recuperato le sue funzioni, perlomeno in una certa misura. Questo è un aspetto differente rispetto a certe visioni del borderline: in certi punti anche Fonagy è un pò ambiguo su questo. Il borderline ha un aspetto cognitivo dissociato? A me non sembra sia sempre così: il borderline va facilmente incontro a frequentissimi momenti in cui perde la sua capacità cognitiva, ma non è che di per sé questa gli manchi. Ci sono dei border con capacità straordinarie, grandi artisti, pittori musicisti importanti.

È importante la domanda sulla funzione a posteriori, per cogliere quando è il momento e lo stesso vale per la narrazione.

Un certo filone psicoanalitico tende a dare molta importanza alla narrazione: l’importante è riuscire a raccontare delle storie perché raccontandole si fluidificano le parti non dette, rappresentabili, le emozioni implicite. La narrazione avrebbe di per sé una funzione fluidificante delle emozioni. Io su questo starei un po’ attento, perché la narrazione sicuramente ha questa funzione, ma non è che di per sé raccontare le storia può permettere questo, se la storia non coglie poi l’elemento reale. Lo confesso, sarò ingenuo ma credo che le cose succedano anche fuori, non succede tutto nella testa. Se non si è fedeli anche al recupero di quello che è veramente successo, pur prestandosi la parola in filosofia a tante discussioni, perché le cose si possono interpretare in vari modi. Se però c’è stata una separazione, una rottura, una morte, una violenza quello è un fatto. Quindi io sono d’accordo sulla narrazione, ma mi porrei anche il problema di come essa riesca a incorporare anche dei fatti. Questa è la vecchia tematica di Freud che pensava che l’isteria derivasse da reminescenze di atti dimenticati e rimossi perché troppo dolorosi, poi disse che derivava solo da fantasie interne. Lo stesso Freud però in molti lavori ha ripreso la sua prima teoria, cioè ha continuato, come tutte le menti molto aperte e potenti, a mantenere un doppio binario e lui stesso in molti lavori, come “Inibizione, sintomo e angoscia” e “Al di là del principio di piacere” parla di traumi che determinano una angoscia irrapresentabile. È chiaro che le fantasie poi sopra ci fanno centomila trasformazioni. Esiste però una dimensione originaria del fatto: proporrei che il tema della narrazione venisse visto alla luce della capacità che ha di rendere giustizia ai fatti, non semplicemente all’importanza del raccontare. Secondo qualcuno, il terapeuta deve svolgere anche una funzione di testimonianza. “Cara paziente, ti è veramente successo questo, ti credo”. Non per questo però bisogna credere a tutto, perché poi ci sono anche molte menzogne. Però la testimonianza deve essere anche l’idea, che alcuni fatti richiedono di essere attestati, con tutte le dovute distinzioni. Bisogna poi distinguere testimonianza, interpretazione, narrazione, menzogna, manipolazione. Il tema della narrazione secondo me andrebbe visto alla luce del concetto di testimonianza.

Domanda del pubblico – Nel trattamento psicoterapico del paziente borderline va perseguito l’insight oppure è meglio puntare in altre direzioni? Credo che questo ci possa dare qualche indicazione operativa sul modo di approcciare questo paziente e di capire meglio cosa si intende per borderline.

Vigorelli – Intanto su quale definizione di insight concordiamo? Se intendiamo quell’illuminazione che coglie il senso di quanto accade, nel borderline è presente questa capacità, però è più potente il meccanismo disorganizzante rispetto ad essa. Se anche ce l’ha, ed è spesso molto intelligente, molto dotato, è come se nella ripetizione delle sequenze descritte prima, l’intelligenza non gli servisse affatto. Quando per insight intendiamo la capacità integrativa, può essere che essa si presenti dopo molto tempo, dopo aver fatto tutto quel lavoro di rassicurazione rispetto alla fiducia, avendo superato quegli slogan tipo “non ho fiducia di nessuno, faccio a meno di tutti e quindi non dipendo”, avendo raggiunto una maggiore stabilità interna e riflessività applicata al quotidiano. Su questa base può avvenire l’insight come collegamento di più livelli del Sé. Mi pare più una conseguenza della cura che un primo obiettivo da perseguire.

Foresti – Io ho parecchie esperienze di pazienti colti e intelligenti, ma che hanno questa struttura, ai quali fai un’interpretazione semplice e banale. Al che loro o non la capiscono o la volta successiva sembra che l’abbiano già dimenticata, persa. Con l’impressione di dover ricominciare sempre da capo. Colpisce quanto queste persone siano intelligenti ma non riescano per nulla a pensare su di sé.

Correale – Sono d’accordo con Marta Vigorelli sul fatto che bisogna definire che cosa si intende per insight. Se per insight si intende comprendere con maggiore chiarezza la parte che ci metto io in una sequenza, è come in questo esempio: una paziente borderline passa interamente le sue sedute a dire quant’è cattivo il suo fidanzato, a me è successo molto spesso. Un giorno però arriva dicendo di rendersi conto di essere anche lei in certi momenti davvero insopportabile e di non sapere come lui possa sopportarla. Si direbbe: ecco finalmente l’insight! Dunque, lui diventa cattivo facilmente, ma anche tu lo provochi continuamente col tuo caratteraccio. Questa è sicuramente un’osservazione importante. in altri casi può essere: “dottore, io penso alla morte continuamente e non potrò mai essere serena perché l’idea della morte mi perseguita.”

Domanda del pubblico – Questi insight hanno una capacità ristrutturante?

Correale – Ce l’hanno perché a questo punto nel rapporto diventa più chiaro che è quello che ci mettiamo tutti e due in questa nostra storia tempestosa, non è solo quello che ci metti tu. Oppure anche fra me e me stesso, se io ho un fondo di profondissima disperazione che mi spinge a esasperarmi facilmente, e inizio ad accorgermi di questo fondo di disperazione, mi può spingere a cercare dei modi per controllarla. Il dramma però è la perdita di questo insight: è ciò che fa ammattire noi terapeuti: “ma come, ne abbiamo parlato e poi lei l’ha detto”. In questi casi può essere utile ricordarlo. “adesso lei mi dice così, ma soltanto l’altro ieri mi ha detto che era pentita di quello che aveva fatto perché abusava della pazienza del suo amico”. Piano piano questo insight può venire richiamato più facilmente, però non credo che nel borderline sia definitiva l’idea che c’è questa scintillal perché va e viene. Richiamarlo può essere comunque molto utile. Attraverso una citazione: “guardi che lei tre giorni fa ha detto così, e adesso come la mettiamo?” È da perseguire l’inserimento nel lavoro di questo richiamo. È un’altra variante della stabile instabilità.

NOTE inserite nel testo:

– 1 – Il laboratorio iniziale di valutazione della teoria dell’attaccamento, la Strange situation, è una stanza in cui avviene l’osservazione prima della relazione del bambino (dai 12 ai 20 mesi) in presenza della madre e di un osservatore; poi la madre va via e rimane l’osservatore; dopo un po’ di tempo si allontana una seconda volta anche con l’osservatore; dopo un certo tempo si reincontrano e si osserva tutto quello che succede quando il bambino si riavvicina alla madre. I comportamenti che si analizzano e si valutano, costituiscono un indicatore del tipo di attaccamento tra i due partner. Si considera dunque il momento dello stress del distacco e del riavvicinamento.

– 2 – Nel complesso, questo stile relazionale familiare sembra rientrare in quello che i ricercatori dello Yale Psychiatric Institute hanno definito come profilo di famiglia ad alta intensità. In questo tipo di famiglia, tutti i membri si preoccupano dello stato affettivo degli altri, determinando un controllo eccessivo che inibisce l’esperienza affettiva dell’altro. I genitori sono letteralmente sopraffati dai sintomi del figlio, non riescono a considerarlo come soggetto distinto e separato, così da impedire e bloccare la sua evoluzione. L’attaccamento invischiato si esprime attraverso un’estrema vicinanza, intrusioni, letture distorte del pensiero e iperreattività durante le interazioni.

APPENDICE: EVOLUZIONE DEL GENOGRAMMA DI KAREN

Filed Under: Senza categoria

Antonello Correale LINEE GENERALI PER UNA DISCUSSIONE SU UN APPROCCIO TEORICO-CLINICO AL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

21 ottobre 2016 By admin

GRUPPO DI STUDIO PER IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

Antonello Correale

LINEE GENERALI PER UNA DISCUSSIONE SU UN APPROCCIO TEORICO-CLINICO AL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

Home

indice delle
relazioni

articoli di
A. Correale

contributi
esterni

bibliografia

POSTA

PremessaÈ fondamentale, per una buona riuscita del trattamento del disturbo borderline di personalità, che tutto il gruppo dei curanti condivida il modello teorico e clinico di riferimento. Molte discussioni, infatti, e molti contrasti all’interno dell’équipe, derivano da una non condivisione dei concetti generali relativi alla natura del disturbo.

Le più frequenti divisioni si formano tra coloro che tendono a dare più importanza alla dimensione di bisogno e di carenza di questi pazienti e coloro che tendono invece a dare maggiore importanza alla dimensione aggressiva e distruttiva. Speriamo di dimostrare che l’approccio teorico e clinico proposto in questa sede permette una buona sintesi di questi opposti.

La teorizzazione che proponiamo, che si basa prevalentemente su contributi psicoanalitici, della psicologia evolutiva, delle neuroscienze che studiano il trauma e dell’osservazione clinica diretta, si fonda su tre concetti fondamentali: il trauma, la mentalizzazione e il senso di vuoto. Tutte le linee terapeutiche proposte possono essere viste come articolate sul trattamento di questi tre punti.

Il trauma

Intendiamo per trauma, non tanto un singolo evento, ma una relazione predominante nei primi anni di vita del futuro paziente, caratterizzata dal fatto che la figura dell’adulto determina, col suo stile, col suo modo di fare, col suo linguaggio, insomma con la sua attitudine generale verso il bambino e verso il mondo, una “emozione soverchiante” nel bambino, che tende a ripetersi nel tempo e che, pur essendo in qualche modo prevedibile, si presenta sempre in ogni momento come eccessiva e travolgente.

Questa emozione soverchiante consiste essenzialmente in un misto di paura, rabbia, sgomento, ed eccitamento, e risponde a atteggiamenti invadenti, seduttivi, imprevedibilmente penetranti ed intrusivi e in genere a tutti quegli atteggiamenti dell’adulto che tendono a far sentire il bambino come sovrastato da un’emozione, che l’adulto determina in lui e che il bambino non può né contenere né elaborare. È tipico dell’emozione soverchiante indurre un senso di allagamento, di incontenibilità, di sopraffazione inelaborabile, che fa vivere al bambino stesso, in modo affettivo ma non intellettivo, sentimenti di morte, di discontinuità dell’esistenza, di inermità, e, di conseguenza, di angoscia incontrollabile, simile a quanto nella teorizzazione psicoanalitica viene definito come cambiamento catastrofico.

Poiché tale sensazione di angoscia non è sostenibile altro che per pochi momenti, il futuro paziente attiva, allo scopo di controllare l’angoscia connessa all’emozione soverchiante, una gamma di risposte, che possono essere sostanzialmente di tre tipi, più o meno distinti o intrecciati l’uno con l’altro:

1)  Uno stato di allarme (iperarousal). Consiste in un atteggiamento di eccessiva vigilanza, di allarmata attenzione a tutto ciò che viene detto o fatto nell’ambiente circostante, in una tendenza ad aspettarsi che possa, in ogni momento, verificarsi una situazione rischiosa, in una tendenza a “monitorare” le parole e i gesti dell’altro in maniera eccessiva, nel tentativo di cogliere in essi possibili elementi di rischio e di pericolo.

Vanno comprese, nella valutazione di possibili rischi, sfumature aggressive, mancanza di empatia, atteggiamenti leggibili come seduttivi, gesti o parole di non facile ed immediata interpretazione.

Questo stato di allarmata ipervigilanza è il principale responsabile della fatica che prova il terapeuta con questi pazienti, perché il terapeuta sente, con stanchezza e preoccupazione che, come si dice nei film polizieschi, “tutto quello che dici, potrà essere usato contro di te”.

È importante a questo fine non scambiare la ipervigilanza del paziente con una modalità puramente aggressiva, ma tener conto che essa costituisce il modo con cui un organismo potenzialmente feribile si difende, con attenzione eccessiva dalla possibilità di ricevere ferite ulteriori.

Le neuroscienze hanno dimostrato, tramite lo studio dei potenziali evocati, che il borderline tende a vivere ogni stimolo sensoriale (visivo, acustico, tattile) come particolarmente intenso, come se sentisse un apparecchio radio tenuto a volume sistematicamente troppo alto.

2)  La dissociazione. Si intende per dissociazione una parziale o totale alterazione dello stato di coscienza, consistente in un restringimento dello stato di coscienza stesso, che viene vissuto dal soggetto come un senso di parziale o totale depersonalizzazione.

È importante concepire la dissociazione come uno spettro che può andare dalla sensazione,  nei casi più lievi, di essere catturati da una emozione più forte di noi che ci trascina, travalicando le nostre possibilità di controllo, a casi più gravi, in cui il soggetto ha la sensazione di funzionare in modo quasi automatico, in uno  stato che si avvicina quasi ad uno stato oniroide per giungere, nei casi ancora più gravi, a veri e propri sdoppiamenti della personalità, come nel disturbo dissociativo di personalità.

La dissociazione va concepita non come una difesa, ma come una disintegrazione di attività superiori maggiormente integrate della coscienza che, sotto l’effetto del trauma, vanno incontro ad una parziale o totale obliterazione per lasciare liberi modelli di funzionamento mentale, solitamente disposti in uno strato gerarchico inferiore  (secondo il modello di Hughlings Jackson  ripreso da Meares).

Tali stati dissociativi sono sempre consecutivi ad esperienze traumatiche acute e possono esibire tratti di impulsività, con azioni improntate ad emozioni esageratamente intense, che possono portare o ad un aumento della tensione e sensibilità, o a una sua drastica diminuzione.

Nel primo caso, il soggetto ricerca comportamenti che possono abbassare l’eccessiva tensione (sostanze, acting, comportamenti sessuali, ricerca frenetica di avventure o di emozioni nuove), nel secondo caso può ricorrere a comportamenti autolesivi, che, attraverso la ricerca del dolore, ristabiliscono la sensibilità resa ottusa dai processi di dissociazione.

Molte delle cosiddette crisi del borderline possono essere lette secondo questa sequenza: un atto traumatico attiva una condizione di angoscia e di catastrofe; l’angoscia e la catastrofe, a loro volta, attivano uno stato dissociativo, nel corso del quale il paziente si fa trascinare da violente esplosioni di emozioni, che possono dare adito a litigi pericolosi, atti clamorosi, comportamenti lesivi per la vita propria o altrui, e il cui tentativo di controllo comporta rischi ulteriori, come assunzione di sostanza o sessualità promiscua. Mostrare al paziente questa successione, è fondamentale perché lentamente si instaura una capacità di evitamento di tale crisi. L’unico modo per controllare gli stati dissociati è, infatti, di prevederli.

Quando sono presenti, sono inutili tentativi di spiegazione, ma sono necessari atteggiamenti di protezione, conforto, ascolto degli sfoghi, e dove indispensabile, controllo contenitivo o farmacologico o istituzionale (vicinanza, rassicurazione, solo in casi rari ricovero).

3)  L’identificazione con l’aggressore. In base a quanto detto finora, si può ipotizzare che le esperienze traumatiche originarie lascino nel futuro borderline una traccia profondissima – se così si può dire, un pezzo di eternità nel flusso psichico -. Questo significa che ogni volta che l’adulto incontrerà nella sua vita situazioni che possono anche lontanamente assomigliare al trauma originario, risponderà a tali situazioni con le modalità che abbiamo detto.

In particolare, egli o ella tenderanno ad assumere la posizione non già della vittima ma del persecutore, insomma del più forte, o oscilleranno continuamente fra posizioni di debolezza, che mostreranno al mondo come richiesta di testimonianza per l’ingiustizia subita o posizione di forza, in cui controlleranno il rischio infliggendo all’altro quello che l’altro potrebbe infliggere loro.

Ne deriva che questi pazienti albergano dentro di sé un’identificazione parziale, ma costante con una figura violenta e aggressiva, che, col suo comportamento, tenderà a tenere sotto controllo il rischio di divenire vittima diventando stabilmente aggressore.

Questo meccanismo di difesa è relativamente costante, non coincide con la dissociazione, ma può essere favorito da uno stato di dissociazione e tende ad essere la più clamorosa espressione della tendenza del borderline a ripetere.

Si deve aggiungere che il borderline non è soltanto tendente a reagire ai traumi attuali con questa modalità, ma che certe volte tende addirittura a cercare i traumi, che esiste cioè in lui o in lei una sorta di traumatofilia, che nasce dal bisogno di interrogare il trauma, riattivandolo, per venirne a capo.

Mentalizzazione

Fonagy definisce la mentalizzazione come la capacità di attribuire all’altro soggetto stati mentali, sentimenti, motivazioni, ricordi, insomma una vita interiore. Presupposto di questo concetto è che, sotto l’effetto dell’esperienza traumatica, il borderline perda la capacità di attribuire all’altro funzioni psichiche elevate.

Così come il trauma tende a obliterare le funzioni superiori della coscienza liberando livelli mentali iperaffettivi e automatici, così, anche per l’altro, il nostro paziente tende a pensare che non sia dotato di funzioni coscienziali superiori, ma soltanto di impulsi semplici, buoni o cattivi, seduttivi o aggressivi, insomma meccanici e acausali. L’altro diventa buono o cattivo, bello o brutto, amico o nemico, senza sfumatura, e più che altro senza motivi apparenti. È diventato cattivo. È un uomo malvagio. È una donna infida e traditrice, e così via.

La tendenza più volte indicata dalle correnti psicoanalitiche, che si ispirano alla teoria degli oggetti interni verso la scissione, può trarre origine da questo atteggiamento. È compito essenziale quindi della terapia fornire continuamente, al paziente, strumenti per la conoscenza della mente dell’altro al fine di superare questi momenti di inadeguata mentalizzazione.

Il senso di vuoto

Il senso di vuoto si esprime, a livello soggettivo, come inquietudine, mancanza di pienezza, insoddisfazione, una malinconia senza oggetto, secondo quella che è stata definita da più parti come una depressione atipica. Non c’è però in questa depressione la nostalgia di un oggetto perduto, e neanche l’impossibilità di fare un lutto di un oggetto perduto, come avviene nella depressione classica, ma il dolore e la rabbia di non avere mai incontrato un oggetto adeguato, di sentire che qualche esperienza fondamentale è mancata e che quindi la nostalgia di un amore mai trovato è in realtà l’aspirazione a incontrare un amore che non si sa se mai si incontrerà, e di cui comunque non si conosce il linguaggio e non si ha mai avuto modo di sperimentare.

Se si volesse usare il linguaggio di Ferenczi, potremmo dire che quella del borderline è stata un’infanzia senza tenerezza, in cui l’eccitamento, la seduzione, la rabbia hanno preso il posto di un piacere quieto e riposante, di quello che potrebbe essere definito un dolce abbandonarsi.

La violenza delle emozioni ha creato un’ipertrofia dell’emozioni discrete, a scapito di un fondamento di emozioni basiche o vitali, come il senso di calma, il quieto riposarsi, un tranquillo abbandonarsi al flusso degli eventi, insomma un sentire che il fiume in cui siamo può essere una corrente protettiva e non solo travolgente.

È fondamentale compito del terapeuta usare un linguaggio, che permetta in terapia l’instaurazione di momenti in cui si possa fare esperienze di questo tipo di emozioni e che tali momenti si stratificano in modo tale da riempire il senso di vuoto di cui parlavamo. Si tratta quindi di un senso di vuoto che riguarda il senso di Sé, che viene avvertito come mancante di un liquido lubrificante interno, dato dal senso di tenerezza, che non è stato presente nei primi rapporti.

Linee per un trattamento

I modelli prevalenti allo stato attuale tendono a strutturarsi sul contenimento delle prime fasi, quando prevalgono comportamenti impulsivi all’insegna della dissociazione e sull’attivazione della capacità di mentalizzare, al fine di evitare che i rapporti umani sbocchino con facilità in situazioni di tipo violento e persecutorio. Il trattamento del vuoto viene in genere preso in considerazione in una seconda fase, quando i comportamenti impulsivi sono stati riportati sotto controllo.

Se dovessimo dividere in fasi il trattamento secondo i modelli prevalenti, potremmo individuare almeno tre grandi fasi.

1)  Una prima fase in cui si mostra al paziente come mentalizzare, facendogli vedere che la paura e l’eccessiva reattività impediscono di valutare l’effettiva soggettività dell’altro e i suoi reali intendimenti. Questa prima fase viene attuata prevalentemente attraverso l’attivazione di un rapporto individuale importante, che accolga un investimento significativo su di sé, di un’attivazione di un gruppo, almeno una volta a settimana, in cui l’attività mentale è discussa con altri pazienti sofferenti dello stesso problema e della messa in campo di figure capaci di offrire un aiuto, anche giornaliero, nel momento in cui viene richiesto. Contemporaneamente, vengono messe in campo attività dirette alla gestione dei rapporti familiari, che si teme stiano perpetuando, anche al momento attuale, le modalità traumatiche tipiche dei primi periodi della vita.

2) Una seconda fase, in cui si tende a portare alla luce l’esperienza traumatica originale. Questa fase è estremamente importante, ma delicata, perché l’attivazione dei ricordi relativi al trauma originario, se effettuata troppo presto, può indurre fenomeni dissociativi o fortemente ansiosi. Questa fase è gestita a livello individuale con un terapeuta fortemente coinvolto nel rapporto. In questa fase può essere utile una co-terapia, perché l’investimento emozionale può essere così forte, da portare a brusche interruzioni o rotture improvvise.

3) Una terza fase in cui si prende in considerazione la depressione atipica. In genere, in questa fase, il paziente non presenta più acting pericolosi, descrive una sua insoddisfazione, un penoso convincimento sulla precarietà dei rapporti umani, una tendenza inquieta e disforica ad arrabbiarsi, una nostalgia verso un livello “poetico” della vita al tempo stesso invocato e preso in giro, ricercato e sbeffeggiato. In questa fase è fondamentale un rapporto psicoterapico individuale, che può essere la continuazione dei precedenti, o essere costruito ex novo.

La nostra proposta quindi consiste nell’integrare i modelli esistenti, secondo una successione più o meno di questo tipo:

1) Una prima fase, che potremmo definire fluida, in cui si mettono in campo un referente col compito di instaurare il rapporto principale, caratterizzato “dall’avere in mente quotidianamente i movimenti del paziente”, a un piccolo gruppo omogeneo, capace di fornire aiuto nella quotidianità e di spingere il paziente a conoscere sempre meglio cause ed evoluzioni delle sue crisi e infine, laddove sia possibile, un gruppo terapeutico in cui discutere con altri pazienti i problemi comuni. Potremmo definire questa fase la fase della mentalizzazione, che non è molto diversa dal modello dell’approccio dialettico-comportamentale, in quanto anch’esso teso a fornire al paziente strumenti per un attraversamento non traumatico dei rapporti umani, in particolare colla figura traumatica di riferimento.

In questa fase può essere necessario valutare la necessità di un intervento di una comunità, laddove la situazione traumatica familiare sia incontrollabile. Va tenuto conto, però che, in linea di massima, l’intervento di una comunità presenta dei rischi di regressione, che vanno attentamente valutati. Se eseguita correttamente, l’attività terapeutica di questa fase comporta, in capo a circa due anni, la quasi totale scomparsa dei fenomeni impulsivi e la venuta in primo piano di problemi affettivi e relazionali.

2) Una seconda fase che potremmo definire della ricostruzione del trauma, in cui l’attività del gruppo passa in secondo piano e viene in primo piano l’attività di uno o due terapeuti, che devono condurre il paziente verso la costituzione di un collegamento fra traumi pregressi e traumi attuali.

3) La terza fase, che potremmo definire del fronteggiamento del vuoto, comporta in genere il concentrarsi del lavoro su di una figura terapeutica e la quasi coincidenza del trattamento del borderline con le caratteristiche di una psicoterapia individuale.

Non c’è alcun dubbio che questa divisione sia estremamente schematica, che le tre fasi tendano a sovrapporsi, e che ci possano essere ritorsioni e slittamenti, ma abbiamo pensato di proporla perché ha il merito, secondo noi, di stabilire una stretta connessione fra problemi teorici e modalità cliniche di intervento.

È chiaro che nelle istituzioni la prima fase assume un’importanza cruciale. È lì infatti che si giocano l’instaurazione di un rapporto di fiducia, che il paziente e i suoi familiari vedono attivarsi dei miglioramenti chiaramente osservabili, e che il gruppo può programmare i passi del suo progredire su una base osservativa sicura. La seconda e la terza fase richiedono poi operatori molto motivati, esperti nel trattamento dei borderline, che non si spaventino del potente coinvolgimento emotivo, che questi pazienti richiedono.

Il singolo terapeuta e il gruppo istituzionale

Tutta l’impostazione che abbiamo proposto si basa su due pilastri fondamentali: le caratteristiche del singolo terapeuta e quelle del gruppo dei curanti.

Il singolo terapeuta si articola in tre funzioni.

1) Il referente è la figura che assume su di sé l’investimento emozionale ed affettivo principale. Può cambiare nel corso del tempo, ma è fondamentale che fin dall’inizio venga individuato chi e come deve svolgere questa funzione.

2)Il case manager. È la figura che coordina i vari interventi specialmente nei casi in cui sono implicate più istanze istituzionali (SPDC, centri diurni, comunità, residenze, interventi familiari, inserimenti lavorativi, aiuti economici, collegamenti con la giustizia e coi servizi con le tossicodipendenze).

3) Il responsabile del servizio, che si assume la responsabilità medico legale della gestione del caso. È fondamentale che queste tre figure siano tra di loro collegate ma distinte e condividano a grandi linee il progetto terapeutico.

Il gruppo istituzionale deve essere un gruppo omogeneo, di non più tre o quattro persone, di varie professionalità, che condividano un modello comune e che ogni volta che c’è un contrasto siano in grado di affrontarlo senza infingimenti, ma anche senza lacerazioni e contrapposizioni violente. Questo aspetto è forse il più difficile da realizzare in campo istituzionale, ma è l’unico in grado di garantire un’evoluzione efficace del trattamento.

In particolare, il piccolo gruppo deve essere a conoscenza,  almeno a grandi linee, del lavoro che fa il referente, e non ostacolarlo, ma appoggiarlo e in caso di contrasti, di affrontarli in un clima di confronto aperto e franco. Per altro, il referente deve essere in grado di chiedere al gruppo aiuto quando si sente sopraffatto, senza sentire che questo provochi attacchi o colpevolizzazioni.

La condivisione di un modello comune è garanzia di omogeneità, ma è importante anche che, all’interno del piccolo gruppo, l’omogeneità sia garantita da una certa affinità anche personale fra i membri del piccolo gruppo o in mancanza di questa, almeno di una certa fiducia e di un rispetto reciproco: il famoso lavoro di squadra, che consiste nel fare un passo indietro, quando si deve tener conto dell’attività di un altro membro del gruppo, ma al tempo stesso di criticare senza paura di distruggere.

Infine è importante che l’intera équipe condivida, almeno a grandi linee, un modello comune e sia in grado di collaborare col piccolo gruppo e coi referenti quando sia necessario, senza sentirsi espropriata, ma anche senza deleghe eccessive nei loro confronti.

Siamo convinti che un modello integrato di questo tipo, possa portare a successi terapeutici molto importanti e che l’attività epidemiologica e di ricerca dei prossimi anni debba essere diretta a valutare, con precisione e rigore, l’efficacia delle linee di trattamento che abbiamo proposto.

Filed Under: Senza categoria

  • 1
  • 2
  • Next Page »
  • Home
  • Privacy
  • Web Policy Privacy
  • Mappa Sito
  • Psicologo Psicoterapeuta Asti
  • Psichiatra Asti
  • Psicoanalista Alessandria
  • Psichiatra Alessandria
  • Trattamenti psicoterapeuti Alessandria
  • Specialista in psichiatria Piemonte
  • Specialista in psichiatria Asti
  • Specialista in bipolarità Alessandria
  • Psicoterapia Piemonte
  • Disturbi di depressione Alessandria
  • Disturbo bipolare Piemonte
  • Disturbi di personalità Alessandria
  • Disturbi d’Ansia Alessandria
  • Criminologia psichiatria forense Alessandria
DR. DANIELE GENNARO – P.Iva: 02357690060
Via Legnano 38, 15152 Alessandria (AL), ITALIA
Cell: +39 340 6709386 | E-mail: danielegennaro59@gmail.com
Sito web realizzato ed ottimizzato da PRISMI S.p.A.

Questo sito utilizza cookie per consentire una navigazione efficiente sullo stesso, per analizzare statisticamente le visite degli utenti, nonché cookie, di terze parti, per inviarti messaggi pubblicitari in linea con le tue preferenze.
Chiudendo questo banner, continuando a navigare o accedendo a un qualunque elemento del sito senza cambiare le impostazioni dei cookie, acconsenti all'uso dei cookie.

OkSe vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie clicca qui